Vajont, le ore precedenti alla strage. La frana avanza: "Dio ce la mandi buona"

Negli ultimi giorni e nelle ultime ore prima del disastro i segnali di pericolo si moltiplicano. Ma niente di sostanziale accade: si sgomberano solo le frazioni sotto il monte Toc. La preoccupazione dei capi, i silenzi colpevoli

A.c.
Una fessura che si era creata nel terreno nella foto di Edoardo Semenza
Una fessura che si era creata nel terreno nella foto di Edoardo Semenza

Qualcosa forse si poteva ancora fare, anche pochi giorni prima che l'immensa frana del monte Toc si riversasse sul lago artificiale del Vajont provocando una strage. Se solo gli allarmi che si moltiplicavano fossero stati ascoltati.

Nei giorni precedenti al 9 ottobre tutti si accorgono che il Toc si sta muovendo sempre più velocemente: gli abitanti di Erto e Casso, gli operai dell'Enel e della ditta Monti, i passanti. "La sede stradale era completamente sconvolta - racconterà Giuseppe Beghelli al giudice istruttore - con avvallamenti per cui il transito, seppure possibile, era difficoltoso, tanto che non aveva più l'aspetto di una strada e sembrava di andare su un campo".

Due giorni prima, il 7, dipendenti Enel-Sade avvertono il comune di Erto che bisogna sgomberare le 37 casere sotto il Toc, perché le falde sono instabili e c'è pericolo di frane. Le frazioni di Pineda, Liron, Prada non sono incluse tra le zone da evacuare. Dalla sera del 7 ottobre, cinque camion dell'Enel e dell'impresa Monti passano di casera in casera a sfollare tutti - uomini e bestie - dalle falde del Toc.

L'8 ottobre - racconta il testimone Antonio Zuccalà - "dissi all'ingegner Biadene (che dall'ottobre '61 aveva sostituito Carlo Semenza alla direzione del Servizio costruzioni idrauliche della Sade, ndr): secondo Lei il Toc cade? E lui mi rispose: 'Il Toc potrebbe cadere stasera come tra trent'anni' ".

Il 9 ottobre, poco prima che il Toc ceda, Alberico Biadene scrive al direttore dei lavori sulla diga, Mario Pancini, che si trovava in vacanza: "Le fessure sul terreno, gli avvallamenti sulla strada, la evidente inclinazione degli alberi sulla costa (...), l'aprirsi della grande fessura che delimita la zona franosa, il muoversi dei punti anche verso la Pineda che finora erano rimasti fermi, fanno pensare al peggio. (...) La popolazione è totalmente sgomberata da ieri sera e permane sul posto solo durante il giorno per la raccolta delle patate".

E aggiunge, in un post scriptum a mano: "Le misure di questa mattina mostrano essere ancora maggiori a quelle di ieri, raggiungendo una maggiorazione del 50%!! (cioè da 20 centimetri a 30 centimetri). (...) Che Iddio ce la mandi buona".
Nella giornata del 9 ottobre, la frana accelera ancora. La strada è ormai completamente dissestata, con dislivelli anche di un metro, "tanto che fui costretto a prendere la bicicletta sulle spalle per superarle", testimonierà Sebastiano Carrara. Si vedono alberi inclinarsi e cadere.
Ancora tre ore prima del disastro una pattuglia di carabinieri blocca la strada tra Longarone ed Erto, non viene dato però nessun avviso di evacuazione. Un'ora prima, le famiglie di Vajont, gruppo di case proprio sotto la diga, e gli addetti della cartiera di Longarone vengono avvertiti di non allarmarsi, se dalla diga fosse tracimata un po' d'acqua.

Alle 17,50 il professor Francesco Penta, geologo consulente della Sade e membro della Commissione di collaudo, raccomanda a Biadene di mantenere la calma, e di "non medicarci la testa prima di essercela rotta".

Il monte Toc si spacca alle 22:39. Una frana di 263 metri cubi crolla nel lago quasi a quota di massima sicurezza (stando agli esperimenti del professor Ghetti): 700,4 metri. In quattro minuti, l'ondata uccide 1.910 persone.

Riproduzione riservata © Il Piccolo