Primosic, il vignaiolo di Oslavia inviato sul Vajont quand’era militare: «Non posso dimenticare quel corpo di bimbo che trovai nel fango»
L’imprenditore vitivinicolo di Oslavia, all’epoca militare sul Piave,
venne chiamato a partecipare alle operazioni di recupero. (Nella foto Primosic è il primo a destra fra i giovani di leva)
Nove ottobre 1963. Una data che ha segnato la storia del Paese. Il disastro del Vajont. Quel giorno, quei giorni sono indelebili anche nella memoria di un uomo che allora era un ragazzo, e che poi avrebbe fatto la storia della viticoltura goriziana e regionale. Fu tra coloro che parteciparono allo straziante lavoro del recupero delle salme della tragedia. Lui è Silvestro Primosic, titolare dell’azienda che porta il suo cognome a Oslavia, e molto conosciuto anche per il ruolo di consigliere circoscrizionale, prima, e poi come consigliere comunale.
Aveva 22 anni, in quell’inizio d’autunno del 1963 che lo vedeva impegnato nel servizio militare con il 101° Battaglione Carri autonomo in appoggio al 4° Corpo d’armata.
Capitava spesso di affrontare campi d’addestramento e in quelle settimane di ottobre il battaglione si trovava a Santa Giustina Bellunese, là dove il Piave esce dalle gole alpine e si allarga. Terreno ideale per le esercitazioni dei carri armati: lasciati mezzi e corpo di guardia proprio sul greto del fiume, il grosso della truppa passava la notte in una struttura del paese.
La sera del 9 ottobre sembrava una come tante. «Non era così – racconta Silvestro Primosic –. Ricordo perfettamente quando l’ufficiale entrò nella camerata, non molto dopo le 22.30, gridando “allarme”. Ci venne spiegato che qualcosa era successo alla diga del Vajont, e dovevamo sgomberare subito i mezzi dal greto del Piave. Così abbiamo fatto, per poi andare a dormire. Non sapevamo ancora dell’immane tragedia».
L’avrebbero capito il mattino successivo, quando il comandante disse ai militari che «dovevamo metterci a disposizione delle autorità civili», ricorda Primosic.
Il perché fu drammaticamente chiaro appena la nebbia che all’alba avvolgeva il Piave iniziò a diradarsi. «Su uno degli isolotti in mezzo al letto del fiume vedemmo una sagoma – dice il viticoltore di Oslavia –. Il sindaco di Santa Giustina, il parroco e il nostro capitano salirono sul primo carro e la raggiunsero. Capirono. Era il corpo di una donna, a cui la forza dell’acqua aveva strappato tutto: vestiti, scarpe, anelli. E, ovunque, ve n’erano altri, tantissimi altri, pieni di fango, sfigurati e sommersi dai detriti. Il nostro compito era trovarli e recuperarli».
Un compito che non tutti si sentirono di affrontare. Chi non ce la faceva veniva esentato, gli altri si facevano forza con un bicchiere di cognac, come i fanti prima dell’assalto nella Grande Guerra.
«Proseguimmo per cinque o sei giorni, perlustrando dodici chilometri di fiume per recuperare ciò che restava di una settantina di povere persone – dice ancora Silvestro Primosic –, che poi portavamo in una chiesetta nelle vicinanze dove le donne e le ragazze del paese sistemavano i corpi per il dolente rito del riconoscimento. Ma, per molti di loro, non era rimasto in vita più nessuno che potesse venirli a cercare».
Un momento, più di altri, è ferita indelebile nel cuore di Silvestro, i cui occhi tremano di lacrime trattenute al ricordo: «Trovai un bimbo, aveva forse tre anni. L’ho lavato con un po’ d’acqua e avvolto nella mia coperta, restando un po’ da solo con lui. Ancora oggi non riesco a dimenticarlo».
Così come non dimentica il Vajont, tornando ogni anno alla diga, per rendere omaggio a chi non c’è più e riflettere sull’arroganza dell’uomo. «Ciò che non sono mai riuscito ad accettare – conclude Primosic –, è il fatto che tutti sapevano quel che sarebbe successo, ma nessuno tra coloro che poteva è intervenuto per cambiare le cose. C’erano troppi interessi in ballo. Al pensiero, non mi do pace». —
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