I geologi in vista del Vajont: «Per le grandi opere servono coscienza e studi»

Alla vigilia del convegno nazionale, parla il bellunese Giorgio Giachetti, presidente veneto. «Ancora non riusciamo a capire come mai il monte Toc sia venuto giù a quella velocità»

Francesco Dal Mas
La diga del Vajont
La diga del Vajont

«Il Vajont? Lo ricordiamo perché è una cosa che non potrà mai essere risarcita, i soldi non sono niente. L’unica cosa che ci resta è questo dolore e noi vogliamo far memoria di questo dolore. Ma non possiamo fermarci a questo dato, dobbiamo andare a vedere, in qualche modo, tutta l’evoluzione che c’è stata da allora».  Ed ecco il convegno che radunerà i geologi italiani a Longarone venerdì e sabato prossimi per il 60° anniversario del disastro. Appuntamento al Centro Parri. Si rifletterà ancora una volta sul disastro, su aspetti inediti di quella tragedia, sulla progettazione oggi alla luce delle carenze, anzi delle colposità di allora, ma anche sul futuro: quindi, ad esempio, sulle opere olimpiche, dirette e indirette, e sulle problematiche di sicurezza del territorio provinciale. Fare o non fare, ad esempio, il villaggio olimpico a Borca? E la zona industriale di Longarone deve temere o no un’eventuale esondazione del Piave? Oppure la eviterà con la barriera della nuova variante? Quanto sono sicure le nostre strade? Insomma, le grandi opere quale sostenibilità tecnica, ambientale, economica e sociale devono avere? Ne parliamo con Giorgio Giachetti, neopresidente dell’Ordine dei geologi del Veneto.

Il disastro del Vajont si è verificato perché di sicuro non è stata considerata proprio nessuna sostenibilità.

«Ma oggi il Nuovo Codice dei Contratti Pubblici determina un nuovo paradigma di approccio alla progettazione. Con il geologo, tra l’altro, inserito a pieno titolo nel gruppo di progettazione”.

Giachetti, c’è davvero stata un’evoluzione delle scienze dopo il disastro di 60 anni fa?

«Alcune scienze, in particolare la geomeccanica, hanno avuto un’ accelerazione grandissima anche se ci restano molti dubbi. Esempio: come mai quella frana è scesa a quella velocità? Perché parliamo di 90 km all’ora. E parliamo di una massa di ben 270 milioni di metri cubi. È come immaginare un cubo di lato 100 metri per 100 per 100 che è moltiplicato 270 volte come da Belluno a Feltre».

Ancora nessuna risposta, immagino. Perché 60 anni fa non si tenne conto dei tanti, troppi segnali che davano la montagna in crollo?

«Non è una giustificazione ma allora c’era tutto un progetto di sbarramenti. Il primo con opere idrauliche è stato fatto a Santa Croce nel 1929. Nel 1931 è stata costruita la diga di Auronzo, nel 1949, quindi subito dopo la guerra, a Pieve di Cadore, nel 1951 la Val Gallina, Pontesei nel 1956. Tutte rilasciavano acqua nel Piave. Ultimo è stato il Vajont. Il Vajont doveva ricevere tutte le acque di quelle dighe e fare da ultima riserva. Quindi era una parte di un progetto enorme che serviva, nell’Italia del dopoguerra, per poter vivere».

Ma, appunto, non giustifica l’irresponsabilità. Si dice l’avidità…

«Sì, c’è stata anche quella. Ma adesso noi dobbiamo fare memoria e andare avanti con il massimo della competenza, della coscienza, il massimo degli studi e degli avanzamenti possibili. Abbiamo le grandi opere da realizzare, necessarie a consolidare lo sviluppo».

Fino a che punto possiamo convivere con le frane? Anzi, è possibile farlo? Ce lo chiediamo perché si è perfino costruito su aree franose in provincia.

«Ci sono delle frane con le quali conviviamo, e dobbiamo imparare a convivere, facendo continuamente la necessaria manutenzione. Costano queste manutenzioni, certo che costano, costano moltissimo. Ma sono imprescindibili».

Non sempre si fanno, spesso ritardano. Lei da geologo autorizzerebbe la costruzione del villaggio olimpico a Borca, area P3 per rischio idrogeologico?

«Per quanto tempo vale questo villaggio? Per il periodo delle Olimpiadi o a lungo termine? Se è per due mesi, d’inverno, con adeguate protezioni, posso andare tranquillo, perché in periodo invernale la montagna di certo non frana».

Le nostre strade, magari ai piedi di ripidi versanti, sono sicure?

«Sono coraggiosamente mantenute aperte, con grande impegno di Anas, Veneto Strade, Provincia, ciascuno a seconda della propria competenza. Ma le strade registrano un sacco di disastri più o meno grandi, e il concetto di sicurezza che noi ci portiamo addosso è “non cade neanche un sasso”. No, non è vero, i sassi cadono, solo che viene fatta manutenzione. Ci sono dei rischi che possono essere corsi e altri rischi che non possono essere corsi. Valutiamo che il pericolo sia governabile ed accettabile».

E qual è il grado di sicurezza dei nostri fiumi?

«L’alveo dei fiumi si è sollevato perché facciamo le dighe. Possiamo togliere la ghiaia dai fiumi? Possiamo fare manutenzioni sui fiumi andando a tagliare le piante? La mia risposta è che siamo in un ambiente fortemente antropizzato e con questo ambiente dobbiamo fare i conti. Cioè dobbiamo imparare a gestire, a cavare i materiali, le piante. Longarone stessa, se continua così, col livello del Piave che si alza, ha delle zone di sofferenza o, meglio, di pericolo. Accettiamo questo pericolo?».

Adesso lungo il Piave, a Longarone appunto, ci facciamo anche la variante.

«In quel tratto il Piave è molto ampio e non pone grandi problemi. Vengono previsti dei livelli di piena e la strada viene posta sopra i livelli di piena. La cosa viene studiata. Dopo esiste sempre una quota di rischio».Francesco Dal Mas

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