Samba por Trieste, la voce di Eloisa era un incantesimo
Gli spettatori del Sartorio si aspettavano una cantante bianca di quel formal-virtuoso che non dispiace: brava da meritare un applauso senza spellarsi le mani per quelle hit latine che grandi artisti avevano in passato dispiegato sul mondo e che quella sera avrebbe interpretato con studio canoro e pacato trasporto, buone per sale d’attesa di dentista o per aerei a biglietto pieno in attesa di poter decollare. Né troppo forte né troppo debole: musica sterilizzata, per accompagnare non per essere ascoltata.
D’altronde, dalla locandina, tra incomprensibili parole brasiliane che la grafia di accenti ondulanti rendono suoni carnali, si intuiva che la protagonista, Eloisa, con quel nome da periferia italiana, potesse essere apprezzata da quelli che del jazz ammirano più lo spacco nella gonna della cantante che l’assolo del sax.
Invece, preso posto i nostrani musicisti con il rassicurante volto dell’onesto negoziante di via Timeus o dello sfatto camionista turco, sul palco salì un metro e ottanta di magro corpo di colore, quasi ossuto, fasciato in un raffinato vestito bianco/verde. Agli attenti e disciplinati spettatori triestini non era sfuggita l’agile grazia con la quale aveva percorso i pochi metri dai gradini al microfono, né l’eleganza delle lunghe mani che si erano strette intorno al microfono fissato sull’asta. Nulla di erotico ma un gesto che significava sintonia, con la musica e il pubblico. Non era bella ma con il volto asciutto e spigoloso e i capelli raggruppati sulla testa somigliava a una divinità india, terribile e materna.
Aveva una voce maschia, alla Nina Simone
Aveva una voce maschia, alla Nina Simone, da fumatrice cubana, rauca e misteriosa come una macumbeira di Bahia e tutti tememmo che con le sole corde vocali potesse lanciarci un incantesimo per vendicarsi delle atrocità inflitte da spagnoli e portoghesi ai creoli, agli africani, all’intero catalogo di civiltà precolombiane. Timore fondato: ringraziando Trieste in italiano per l’accoglienza aveva conquistato metà del pubblico; intonando le prime due parole della canzone d’esordio, “Meu coraçao”, indugiando sull’ultima “a”, ci inchiodò alle sedie e capimmo di appartenerle.
Veronica ed io ci stavamo lasciando, mi ero infilato in quel concerto al Sartorio per distrarmi, senza conoscere il programma della serata, ma quelle due parole sembravano indirizzate a me. Appuntite come un giavellotto mi avevano trapassato il torace; ero rimasto immobile, in un interminabile oblio musicale tra la vita e la morte.
Riprendemmo a respirare solo al termine del primo pezzo, poi, come l’uno-due di un pugile, all’avvio della seconda canzone, una bossa nova incalzante, tornammo in apnea. Ci salvò dall’ictus collettivo la richiesta di partecipare al ritmo: parapapapabaribudà suggeriva dal palco, parapapapabaribudà insisteva. E sapete come sono i triestini, curiosità intelligente e cosmopolita, naturalmente attratti da ciò che non conoscono, si cimentano. Così intonarono un parapapapabaribudà che uscì più sterile e scarico del suo. Ma importante è partecipare, collegarsi a quella sacerdotessa del Candomblè discesa dalle favelas come dalla Scala santa, inviata da un’Entità superiore. Collegarsi, intrecciarsi a lei come facevano i tre grandi musicisti vestiti come appena usciti dal garage dove hanno cambiato le gomme dell’auto. L’apparenza non conta, infatti raccoglievano da dentro i loro cuori sonorità brasiliane sedimentate e le sistemavano su un enorme vassoio sul quale lei poggiava la voce lanciando poi delicatamente tutto in aria. Ginocchia ondeggiavano, piedi battevano il ritmo, molti tentarono di accordarsi a un samba triste dedicato a Jobim. Pescava nel profondo lei, tra una vertebra e la cistifellea agganciava cellule di Dna dove erano custodite paure, sofferenze e riti africani, li strizzava e lasciava colare in crome e biscrome. Un inno antico, uno sprofondo di sgomento e delizia che – come fosse stato il muro del suono – ruppe con un “toc” la barra asburgica che dà stabilità e orientamento alla città.
I ragazzi della Banda Berimbau, organizzatori della serata, le furono intorno, non era chiaro se per proteggerla da se stessa o per acclamarla. Dal microfono lei accennò qualcosa, un nuovo ritmo solo voce e sottovoce, e tutti la seguimmo mentre in corteo scendevano dal palco. E ringraziava, incespicando graziosamente su alcune consonanti, potente e gentile.
Scomparve dietro le quinte attorniata di amici e musicisti mentre uomini e donne del pubblico in piedi applaudivano vigorosamente. «La xe bravissima», «Sì, veramente ’ssai roba»; accennavano passi di samba, una giovane in particolare faceva oscillare il bacino al frenetico movimento delle gambe con sciolta professionalità, catturando l’ammirazione delle donne e il desiderio degli uomini.
Tentavo di farmi largo tra la folla per raggiungere le quinte
Tentavo di farmi largo tra la folla per raggiungere le quinte e complimentarmi; avevo quasi raggiunto le transenne quando un omone mi bloccò.
«No se pol» disse con parole di pietra sbarrandomi la strada con un braccio dal diametro del mio torace.
«Come no se pol? Mi volevo saludar la cantante, complimentarme».
«No se pol».
«Solo strenzerghe la man».
«No se pol».
«Uuuuhhh…» vocalizzai. Notai che Eloisa si allontanava per un’uscita secondaria. Mi voltai e corsi verso l’uscita principale, girai intorno all’edificio e raggiunsi l’uscita secondaria proprio mentre Eloisa saltava a bordo di una riconoscibile auto gialla, che si allontanò in direzione piazza Unità. Corsi indietro, slegai la mia bici dal palo dove l’avevo assicurata, la inforcai e pedalai zigzagando tra la folla di Cavana. Al semaforo di via Pozzo del mare l’auto gialla mi sfrecciò davanti proseguendo per via del Teatro romano. La inseguii e, rallentata dal traffico, la affiancai. Mi resi conto di quanto fossi ridicolo e che non sapevo cosa chiedere alla semidea. Invece, senza chiedere autorizzazione al cervello, le nocche della mia mano sinistra bussarono al finestrino oltre il quale era seduta la brasiliana.
«Por favor … excuciame Eloisa, un autografo» urlai in un orribile spagnolo, lingua che ritenevo la più vicina al portoghese che ignoravo. «Un autogràfo» urlai ancora, chissà perché posticipando l’accento sulla terza sillaba.
Dall’interno Eloisa chiese al conducente di fermare, abbassò il finestrino.
«Un autogràfo por mi hermosa … hermana … morosa … insomma my girlfriend».
«Qual è o nome dele?»
Finalmente la vedevo da vicino. Ancor meno bella ma ancor più affascinante, tratti duri e voce maschia profonda. «Qual è o nome dele?»” mi chiese nuovamente, ridendo.
«Eloisa…» dissi, poi mi ripresi: «No, Veronica, si chiama Veronica».
Prese un cd da una borsa, estrasse un pennarello e scrisse “A Veronica, meu coraçao”, e lanciandomi un bacio si allontanò. —
L’autore: Francesco De Filippo
Francesco De Filippo, giornalista, scrittore e saggista, vive a Trieste. È stato inviato all’estero per varie testate tra cui Il Sole 24 Ore; lavora all’Ansa dal 1986, agenzia per la quale è responsabile per il Friuli Venezia Giulia. Ha pubblicato oltre venti libri per diverse case editrici (Rizzoli, Mondadori, Giunti, Infinito, Castelvecchi), alcuni sono stati pubblicati in Francia e in Germania; uno in Repubblica Ceca. Nel 2001 ha vinto il Premio Paris Noir. Fra le ultime opere “Filosofia per i prossimi umani” (con Maria Frega–Giunti 2020), e per Castelvecchi “No vax: il grande sogno negato (2022); “Le visioni di Johanna (2019); “Prima sterminammo gli uccelli…” (2020); “Trieste è un’isola” (2023).
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