Dritto in porta per segnare il goal dei sogni

I compagni giocavano, lui si era dissetato alla fontana, lei stava leggendo. E come se anche lui fosse un libro aperto, lesse nel profondo del suo cuore

Antonella Sbuelz

Il bambino ha un ciuffo biondo da tucano che gli oscilla sopra la fronte e che si bagna sotto il getto d’acqua, quando accosta la bocca al rubinetto per bere una lunga sorsata.

Si asciuga in fretta labbra e mento con un lembo della maglietta e riempie fino all’orlo la borraccia, riavvitandone il tappo con cura.

Poi sale sopra un muretto che delimita una pianta ad alto fusto, lo percorre con passo scivolato, spicca un piccolo salto laterale, atterra oltre il ciglio di un’aiuola e conclude con una piroetta che concilia energia e agilità in un avvitamento improvvisato.

Solo adesso si accorge della donna seduta sulla panchina.

E la donna si accorge di lui.

«Ciao», fa il bambino alla donna.

«Ciao», fa la donna al bambino.

Ancora in piedi accanto alla fontana, lui esita e resta sospeso tra il ripartire e il farsi più vicino, fra timidezza e curiosità.

Qualche goccia gli stilla dal ciuffo. Ci passa sopra il dorso di una mano.

Punta il viso verso la partita che si sta disputando oltre la rete. Il suo corpo si staglia in controluce tra il campetto di calcio recintato e l’oasi dei giochi di legno del minuscolo parco cittadino.

La sua squadra sta giocando bene. Ma gioca senza di lui. Capita spesso, da un po’.

Le voci eccitate dei compagni sono un vortice che sale, scende, sale, devia verso il margine del campo, rincorre il movimento del pallone, si dissolve in contrappunti di tensioni, riprende quota, esplode dentro un goal che fa vibrare l’aria, l’erba, l’afa.

Hanno vinto. Ma senza di lui. Non sempre le vittorie hanno sapore.

E non sempre sono vittorie.

«Cosa leggi?», chiede il bambino.

La donna tiene ancora il libro aperto. Infila fra due pagine un soffione.

«La storia di un ragazzino».

Il bambino si gratta una guancia. «E ti piace?», si azzarda a domandare.

«Ancora non lo so», dice la donna. «Ci sono parti allegre e parti tristi. Mi piacciono di più le parti tristi, forse perché sembrano più vere. Però mi preoccupo per lui».

Il bambino abbassa gli occhi sulle sneakers, le studia come mappe del tesoro: gli sbaffi di terra su una punta, una stringa slacciata e infangata, un piede che strofina l’altro piede alla ricerca di equilibri nuovi.

«Perché ti preoccupi per lui? Sta in un libro. Non è una storia vera».

Lei osserva il campetto di calcio. I ragazzini in fermento. La loro esclusiva allegria.

Poi si china col busto in avanti: «I libri sono sempre storie vere, per chi vive fra le pagine di un libro».

Il bambino ora cerca con gli occhi un punto preciso, non lontano. Sua madre è sempre là, sull’altalena, e le imprime con le gambe un moto lieve, facendo oscillare avanti e indietro il seggiolino di legno: tiene i piedi sopra il ghiaino, le dita e gli occhi sopra il cellulare.

Andare da lei? Restare qui? Raggiungere la squadra oltre la rete?

Si volta verso il campetto. Accenna qualche passo, torna indietro. Libera la sua curiosità. «E cosa fa, nel libro, il ragazzino?»

«Oh, tante cose diverse», risponde la donna, pensosa, sfiorando appena il gambo del soffione. «Ma mi sa che le cose più belle sono quelle che ancora non fa. Quelle che sogna di fare. Quelle che un giorno farà».

Il bambino ora punta una radice che sporge gobba dal terreno erboso e poi prende a calciarla piano piano, con ritmo sistematico e tenace.

«Tipo?» poi domanda a voce bassa, gli occhi che saettano inquieti fra la donna seduta e la radice.

«In realtà è una storia lunga…», dice lei. «Il ragazzino vive su una barca assieme ai suoi genitori, ma non vuole diventare un pescatore come suo padre e suo nonno e – prima ancora – il padre di suo nonno. Non gli piace vivere sull’acqua. Non gli piace la calma di quel fiume che conosce una sola direzione. Non gli piace nemmeno nuotare. Non sa come dirglielo, ai suoi, ma per sé lui sogna tutta un’altra vita».

Il bambino saetta con gli occhi alle spalle della panchina, verso l’oasi dei giochi e l’altalena. Sull’altalena, la madre.

I piedi sopra il ghiaino, le dita e gli occhi sopra il cellulare.

La donna adesso tace. Tace ancora. Il bambino ora calcia la radice con ritmo più rapido, più ostile. Non si ferma, formulando la domanda:

«E lui, il ragazzino del libro… lui cosa vorrebbe fare, invece?»

La donna sfila il gambo del soffione, alza gli occhi a una tortora su un ramo. «Lui vorrebbe imparare a volare. A pilotare un aereo. A muoversi in alto, nel cielo, decidendo in che direzione andare».

Ora la punta della sneakers smette di calciare la radice.

Ha preso a soffiare un vento caldo, un vento che arriva da est. La donna riapre il suo libro e guarda ancora verso l’area-giochi, nell’angolo in ombra del parchetto. La madre è sempre là, sull’altalena. I piedi sopra il ghiaino, le dita e gli occhi sopra il cellulare.

«E quanti anni ha quel ragazzino?», domanda ancora il bambino.

«Ne ha dieci. Tu quanti ne hai?»”

«Otto. Anzi, otto e mezzo. E… i suoi glielo lasciano fare? Di guidare un aereo, voglio dire».

La donna adesso fissa oltre la rete. Fissa le due squadre sul campetto. Chi esulta e chi si dispera. Chi si abbraccia, chi si accascia, chi si accusa.

«I suoi genitori, all’inizio, non sono affatto contenti. Ma il sogno del ragazzino è come un pallone da calcio: punta dritto verso la porta. E anche se c’è chi si oppone e chi cerca di ricacciarlo indietro, alla fine quel sogno farà goal. Lo sai come si chiama il goal dei sogni?»

Il bambino adesso arriccia fronte e naso. L’espressione è di stupore concentrato. Questa è davvero una domanda strana.

Lancia uno sguardo furtivo agli amici remoti, oltre la rete. Nessuno è qui. Nessuno può ascoltare. Nessuno lo può prendere in giro.

«Come si chiama il goal dei sogni?», chiede.

La donna si abbassa gli occhiali. «Si chiama felicità».

Il bambino sbatte gli occhi. Resta muto. E rapido come era arrivato, all’improvviso adesso se ne va.

La donna osserva la sua corsa sul percorso serpeggiante del vialetto: come si infila agile nel verde, come zigzaga attorno a una panchina, come imprime movimento alla giostrina superando il perimetro dei giochi, come striscia le scarpe sul ghiaino arrestandosi davanti all’altalena.

La madre, sull’altalena, alza gli occhi dal cellulare.

Hai i capelli biondi e chiari, come il figlio. Lo ascolta. Lo lascia parlare.

La donna con il libro appena aperto non può sentirli da qui, ma le piace intuire – o ipotizzare – le parole concitate del bambino.

Le piace guardarli camminare. Le piace che si tengano per mano, mentre si avviano all’uscita.

E poi, quando si fanno più vicini, le piace che un alito di vento all’improvviso porti fino a lei il soffio di qualche parola.

Cos’altro vorresti fare, allora, se il calcio non ti va più?

La donna trattiene il respiro. Sfiora il libro, sfiora il gambo del soffione.

E le pare che le arrivi una parola: una folata fresca di allegria.

Ballare.

Ma forse se l’è solo sognata. Forse è solo il frusciare del vento. Forse è solo la sua immaginazione allenata fra le pagine dei libri.

L’unica cosa sicura è che ora, all’altezza del cancello, il bambino per un attimo si ferma, si volta a fissarla in silenzio, le rivolge una specie di sorriso.

Poi solleva una mano sottile. E le sue dita danzano in un ciao.

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