C’era lo spettro di Tervuren nelle notti più buie
Il racconto di oggi scritto da Marco Zatterin. Il suo nome era Habimana, ma era Mariagorety per gli amici e ora per me. Suo padre si chiamava Bosco, era stato un uomo buono, cattolico, sognatore
Si scrive tutto attaccato, una parola sola. Con la ipsilon finale e una t: Mariagorety.
Così?
Esatto, sorride la signorina Habimana, Mariagorety per gli amici e ora per me. Come la santa a cui non assomiglia neanche un poco, nemmeno se hai bevuto quattro bicchieri oltre il limite. Mariagorety, dunque, e così sia.
È seduta sullo strapuntino di plastica cinerea, lo ha preferito alla poltrona in legno del vecchio tram color caffellatte che ha appena lasciato la stazione sotterranea di Montgomery e corre sotto l’Avenue de Tervuren. In questo punto del veicolo si rotea, si trema e si balla, mentre le pareti a coste si stringono e si distendono sino a mimare la danza di un’immensa fisarmonica.
Sembra d’andare in giostra, confessa la donna con l’espressione di chi sa incartare con lo scherzo il più serio dei discorsi. Solleva il capo con eleganza. Si ferma e osserva. Ha uno sguardo che esige risposte.
Ci siamo incontrati nel ventre della città, di fronte al giornalaio che serve il girone dei trasporti a filo, sul pavimento di gomma lisa che vibra ogni volta che, nella seconda cerchia, qualche metro più sotto, sfreccia la metropolitana.
L’amministrazione ha accolto in questo sotterraneo stranamente arioso gli esercizi commerciali, consentendo la vendita di gaufre, frites, caffè bruciato, bibite arcobaleno, gomme da masticare. Quelle masticate sono accuratamente depositate dai passanti negli appositi cestini. Fra i binari non se ne scorge una.
Una volta c’erano le cicche delle sigarette, ma i treni hanno smesso di fumare da un bel po’. Mariagorety proviene da un altro luogo, una regione lontana, è figlia legittima dell’Africa, di una delle zone più centrali, per giunta. Il nonno era di Gitarama, Ruanda. Il padre è nato a Kigali, in ospedale – il primo della sua stirpe ad aprire gli occhi e vedere una nurse vestita di azzurro.
Lei è germogliata nell’isola multicolore di Ixelles, nella repubblica quasi indipendente fondata su strani affari, piccoli commerci, pollo fritto, birra, perline, unghie e parrucchieri per signora che chiamano Matongé perché ricorda un quartiere di Kinshasa, circostanza che nessuno ha davvero verificato in giorni recenti. Dal punto di vista generazionale per lei essere una bruxellese con un lavoro è un successo apprezzabile.
Di qui il sorriso. Come l’Africa, il volto magnifico della signorina Habimana esprime un senso di potenziale pericolo. È tutsi, chiaramente tutsi. È alta, lunga e magra. È bella e fiera. Il naso è scolpito, gli occhi tramandano la profondità delle mille colline di Kigali a cui si pensa quando la si guarda. Tutto sotto controllo, sembrano dire. Anche quando sobbalza il tram che non è la metropolitana, ma che sa lo stesso di olio dei freni e di patate fritte.
Il 44 parte. Si va!
Ho conosciuto Mariagorety per caso, a una cena di gente varia in rue Goffart, sulla collina di Ixelles. Si cominciò con un “Ruanda, possibile?” poi la serata corse su trame profonde e dolorose. Lei non era mai stata nella sua terra. Io, sì.
Custodisco le immagini del genocidio scolpite nella testa, quei teschi ormai nudi spaccati da un colpo secco di machete, le fosse comuni, i machete ordinati contro i muri delle caserme, i detenuti ammucchiati nell’umido della prigione di Kigali che facevano i turni per sedersi, le camerate coi letti a castello e tre/quattro piani di bambini che ti guardavano come nelle foto più crude dei campi nazisti.
Era strano che fosse lei che non li aveva vissuti a parlare dei fatti del ‘94, dei sospetti sulle reali ragioni del massacro “degli scarafaggi tutsi” ordinato dagli ideologi hutu attraverso radio dell’Hotel Mille Colline, del risentimento per americani e francesi che, con ruoli e finalità diversi, avevano acceso la miccia dello scempio infinito. Mariagorety riviveva le storie di famiglia nei racconti, ogni volta aggiungeva un tassello alla memoria nitida e remota del Ruanda.
La sua vita, ammise, era infestata dallo spettro del Re Leopoldo, l’affarista assassino che le appariva nelle notti più buie. Citò Joseph Conrad, quella sera; per lui il Congo era stata “la più vile corsa alla ricchezza che abbia mai sfigurato la coscienza umana”.
Così. Anche peggio. E poi c’era la vicenda del padre. Bosco Habimana, funzionario del ministero degli Esteri, un uomo buono, cattolico, sognatore. Bosco da don Bosco. Sparito nel nulla molti anni prima. Senza lasciare traccia. Volatilizzato. In che modo? E perché?
Ti racconterò quel che so. Ma solo dopo aver preso un tram insieme.
In meno di mezz’ora arrivammo al capolinea
In meno di mezz’ora arrivammo al capolinea di Tervuren. Fu un viaggio di incanti, all’inizio carico di parole poi confluite in emozioni sospese nel verde, mentre il tram attraversava il bosco incantato.
L’aria era fresca, il sole illuminava i tronchi e segnava la scena di giallo e blu, pareva la pubblicità del tabacco per la pipa del primo mattino. Quando scendemmo dalla vettura, Mariagorety si oscurò improvvisamente, non solo perché il tempo s’era fatto incerto.
Eccoci.
Eccolo. Il Museo Reale per l’Africa centrale, la casa del fantasma, nella quale la donna entrò con passo sicuro. Un posto familiare, mi parve di capire. Ne era attratta e lo rifiutava.
Percorremmo l’atrio con le reliquie di Stanley, gli scritti, le carte, il cappello di sughero fasciato, la carabina dell’uomo che aveva fatto la brutta impresa, suo malgrado. Si intrecciavano i corridoi degli animali imbalsamati e degli insetti spillati su un foglietto che riproduceva il nome scientifico della piccola cosa. Oggetti ovunque, lance, archi, vasellame, maschere.
Il bottino del genocidio che aveva arricchito Alberto e i belgi. Mariagorety si fermò sotto il colonnato. Il parco davanti a noi, l’erba ben tagliata scendeva sino ai laghetti, intorno ai quali i pescatori erano schierati a distanza regolare, sistemati da un architetto paesaggista.
Mio padre è stato qui più volte, ruppe il grasso silenzio.
Era stregato da questo palazzo e dalle sue collezioni. Pensava che avessero fatto bene, che l’anima della sua terra rivivesse in quelle statiche icone che tutti potevano apprezzare. Amava il Museo dell’Africa. Non era così consapevole del massacro da cui era scaturito, dello sfruttamento impietoso. Considerava les belges come dei vecchi zii burberi. Quelle sale lo rassicuravano, ci vedeva il tributo a un grande continente. Non era un uomo di sfumature, mio padre.
La donna aveva gli occhi umidi, adesso. Ci incamminammo verso il capolinea del 44. Accesi una sigaretta. C’era una sola cosa che volevo dire e non ci riuscii sino all’ultimo. Maria, cos’è successo a suo padre? Respirò profondamente. Guardava la sigaretta senza chiederla.
In realtà non lo so. È tornato a Kigali ed è sparito. Pof!
Perché?
Forse per il suo progetto di convivenza degli uomini.
Quale?
Non lo so, non lo so. Anche se mia madre sostiene che fu tutta colpa di quella sua folle idea per la pacificazione, la proposta che fece al Parlamento nazionale, una visione che parve provocazione a tutti, africani, francesi, americani, inglesi e russi, troppe genti diverse, ognuna preoccupata a dare il peggio per ottenere il meglio per sé.
Una proposta. Quale?
Pensava che il Ruanda dovesse avere un Museo dell’Europa.
Alzai gli occhi al cielo tessuto di ambra grigia. Ora la pioggia era finalmente libera di cadere.
L’autore: Marzo Zatterin
Marco Zatterin, giornalista e scrittore, nato a Roma nel 1961, cittadino europeo con radici venete. Ha vissuto in una redazione dal 1982 e lavorato per La Stampa per trent’anni, come capo dell’Economia, corrispondente da Bruxelles per un decennio e vicedirettore. Da giugno scrive per i quotidiani del gruppo Nem.
Autore di numerosi saggi fra i quali “Trafalgar” (Rizzoli 2005), “Il Gigante del Nilo” (Oscar Storia, 2019) e “Gli amici geniali” (L’Erma, 2023). Appassionato di economia, geopolitica e questioni europee, ha un debole per gli archivi, la storia, la letteratura di viaggio e il rock. La sua vera missione è unire i puntini.
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