Adnan Sarwar: «In Iraq da soldato non appresi nulla, tornai da reporter»

Il fotografo e filmaker a Trieste per il Link Media Festival, sul palco domenica: «Viaggiare senza armi è più interessante, sei più libero tu e la gente che incontri»
Valeria Pace
Adnan Sarwar in Afghanistan
Adnan Sarwar in Afghanistan

Adnan Sarwar ha messo via il fucile dopo aver combattuto con l’esercito britannico in Iraq, ora imbraccia telecamera e macchina fotografica, ma il campo, non necessariamente di battaglia, rimane il baricentro della sua vita. Dopo un periodo in redazione all’Economist, ora è un freelance, e collabora con le più importanti testate giornalistiche britanniche. Il fotografo e filmmaker sarà al Link Media Festival di Trieste – promosso dal gruppo Nem – domenica 8 settembre alle 10.30 in piazza Unità (qui il link per iscriversi agli eventi).

Come mai questa svolta, da soldato a giornalista?

«Sono stato in Iraq un anno con l’esercito. Ma quando sei un militare stai in un campo dove ci sono solo altri soldati, britannici come te o americani, e gli unici iracheni che incontri ti dicono quello che vuoi sentirti dire. Ti sembra di viaggare, stai facendo una grande avventura, ma non impari niente sul posto dove stai. Sono tornato in Iraq per l’Economist e poi per la Bbc. È molto più interessante viaggiare senza fucile. Sei più libero».

Dopo il terremoto in Afghanistan del 2022 ha scritto in un articolo che anche se non siamo d’accordo con i talebani dobbiamo aiutare il Paese. Adesso com’è la situazione umanitaria?

«Quando gli americani hanno lasciato il Paese, hanno abbandonato mappe su cui sono segnate tutte le risorse minerarie. I talebani sanno dove sono, e stanno facendo accordi con i cinesi per sfruttarle. Loro vorrebbero costruire una ferrovia per trasportare le risorse in Cina. Qatar, Turchia e Emirati arabi uniti si sono occupati di far funzionare l’aeroporto. L’Uzbekistan fornisce la maggior parte dell’elettricità al Paese e non l’ha mai spenta. In un qualche senso il Paese funziona, è qualcosa di strano. Non c’è quasi nessun tipo di resistenza interna. Abituati a essere invasi, sono rassegnati.

Parlando con gli afghani, dicono i russi hanno costruito gli edifici in cui viviamo, gli americani hanno portato tende, non hanno lasciato nulla. La vita è difficilissima per le donne, soprattutte quelle che vivono nella capitale che con gli americani hanno assaggiato grande libertà... La verità è che i talebani non possono essere rimossi, e ci sono pochi governi disponibili a lavorare con loro. Ma l’Afghanistan è troppo importante per essere ignorato, e anche l’Occidente se ne deve rendere conto».

Ha passato sei mesi a fingere di essere un migrante nella giungla di Calais per raccontare delle gang di trafficanti di esseri umani. Anche Trieste è un posto raggiunto da migranti sulla Rotta balcanica...

«Nella giungla a Calais ho visto cose tremende, gang che stupravano le donne, ho quasi assistito a un omicidio. Al trafficante con cui stavo parlando ho detto che dovevamo intervenire, lui mi ha risposto di lasciar perdere, che era ordinaria amministrazione. Non sono un esperto di migrazione ma bisogna che ci rendiamo conto del fatto che il fenomeno non si fermerà, con il cambiamento climatico. Dobbiamo pensare al problema in maniera lucida, andare oltre alle emozioni. Non ci sono risposte semplici, ma sicuramente l’immigrazione e la cittadinanza saranno le due questioni più difficili da affrontare nel prossimo futuro».

E oltre alle emozioni c’è il fenomeno delle fake news...

«È tutto legato alle emozioni. Sono entrate dentro le notizie e hanno fatto perdere credibilità al giornalismo. Basti pensare all’elezione di Donald Trump. Sui giornali c’erano solo opinioni negative su di lui, ma il pubblico voleva notizie, non solo leggere un giornale anti-Trump. Troppe emozioni sono entrate nel giornalismo, è stato troppo facile per l’estrema destra dire che il giornalismo non è obiettivo».

La crisi è irreversibile?

«Sono ottimista sul futuro del giornalismo. Dobbiamo riottenere la fiducia del pubblico, reimparare il mestiere e far capire che c’è bisogno di notizie. E non tutti i media sono in crisi. Il Financial Times e l’Economist sono riusciti a porsi come fonte indispensabile per i loro lettori, il mondo del business sa che non può non leggerli».

Quali sono le storie che sono rimaste di più con lei?

«Quelle dei bambini. Penso ad esempio a questa bimba su Chicken street a Kabul, chiedeva l’elemosina. Faceva ridere alcuni passanti, altri li impietosiva. Era bravissima. E sembrava solo donarti un sorriso. Poi scopri che la sua famiglia vive a molti chilometri di distanza, che i bambini come lei vengono sfruttati da gang e spesso finiscono in giri di prostituzione. Oppure ricordo la bambina siriana che a Calais aveva paura di salire sul barchino per attraversare la Manica.

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