Terremoto del Friuli, 44 anni dopo. Questo nuovo disastro ci mette alla prova: "Rinasceremo, come nel ’76 dopo l'Orcolat"

L'anniversario del sisma durante la pandemia globale. Già nel 1986 la ricostruzione era stata quasi completata

UDINE. I friulani sono solitari, silenziosi, un po’ rusteghi. Almeno così vuole la tradizione. E allora non c’è da stupirsi se, dopo il terremoto del 1976, quando emerse subito la voglia di fare, ricostruire, riparare i danni, prese slancio il famoso (e anche molto criticato) motto del “fasìn di bessoi”. Eppure dietro questo slogan, che il Messaggero Veneto diretto da Vittorino Meloni ripetè all’infinito, c’era una logica concreta.

Il fare da soli non significava che le proprie risorse bastassero nell’affrontare l’immane opera, ma che tutta l’operazione doveva aveva una mente, un cuore e un braccio interamente nostri, regionali, o meglio friulani. E fu quello forse l’unico periodo nella storia della Regione Friuli Venezia Giulia, cominciata nel 1963, in cui Udine divenne capitale effettiva del territorio che le gravita attorno, dalla Carnia al litorale.

GUARDA: Gemona e Venzone in un video "immersivo" a 360 gradi



La scommessa era gigantesca, decisiva per le nostre sorti, e fu vinta alla grande perché nel 1986 la ricostruzione era completata quasi al 100 per cento, visto che erano stati ricostruiti 18 mila edifici e riparati quasi 80 mila. Il “fasìn di bessoi”, dando fiducia agli amministratori, ai sindaci, alle autonomie, alle singole famiglie, era stata la formula di un miracolo, mai più ripetutosi in Italia, quello della rinascita da una catastrofe nei tempi giusti e con i costi giusti, come venne ufficializzato in un rapporto del Parlamento nel 2016. Risultati che nemmeno in Giappone, paese specializzato in simili imprese, si sono verificati tanto efficacemente.

Ma perché in Friuli le cose andarono proprio in tal modo? Il tema, ormai da 44 anni, è al centro di rievocazioni a ogni ricorrenza, con toni inevitabilmente enfatici, e del resto comprensibili. A voler rimanere con i piedi per terra, il miracolo di una ricostruzione onesta e totale, in una nazione così volubile e imprecisa come la nostra, resta comunque un fatto da analizzare e studiare al di là di quanto si può accennare in un articolo di giornale.

E allora, per uscire dall’ambito strettamente politico o giornalistico, si possono citare tra i tanti titoli a disposizione almeno due libri che, in vario modo, narrano in profondità cosa accadde dal 1976 in poi, almeno per un decennio. Uno è “Il costo dei terremoti”, autore l’architetto Luciano Di Sopra, il professionista (politicamente di sinistra) al quale il presidente democristiano della Regione Antonio Comelli si era rivolto per avere una stima di quanto occorresse, prima di andare a Roma a sollecitare il dovuto. Di Sopra indicò una cifra, circa 19 mila miliardi di lire, e fu quella che effettivamente servì. Il governo garantì le risorse, per esempio aumentando il prezzo della benzina, e i friulani ricostruirono.

Terremoto del Friuli, 43 anni dopo: «Io, vigile del fuoco, fui il primo a uscire in mezzo alle macerie tra polvere e morte»
Placeholder

L’altro libro è molto diverso perché raccoglie testimonianze, memorie e diari. Lo scrisse Igor Londero, si intitola “Pa sopravivence, no pa l’anarchie” e narra le forme di autogestione nelle tendopoli di Gemona. Pagine che, come disse nella prefazione Remo Cacitti, fanno capire il ruolo della “int”, termine friulano che non va tradotto semplicemente in gente “perché la sua radice racchiude un segreto che può aiutarci a comprendere meglio il protagonista vero nell’epopea del Friuli terremotato”.

CORONAVIRUS, I DATI

Il latino “gens”, da cui deriva il nostro “int”, è infatti fratello di “genius”. E con tale parola i latini definivano il principio generatore della vita, perché protegge famiglie, luoghi, città, villaggi, soprattutto la casa, che per il popolo friulano è tutto. Il focolare è il centro del suo anarchismo privato, individuale, sempre teso tra sottomissione e ribellione.

LEGGI, IL TERREMOTO DEL FRIULI: LO SPECIALE MULTIMEDIALE PER I 40 ANNI

Dal terremoto uscimmo così, e adesso nel 2020 come reagire? Tutto è naturalmente diverso, visto il disastro globale. La nostra casa non è crollata, perché dentro a essa abbiamo anzi dovuto barricarci, per distanziarci dal resto, mentre il panorama attorno si è svuotato rischiando di allontanarci dalla nostra “int”. La ricorrenza del sisma cade in un momento strano e particolare, in bilico fra Fase 1 e Fase 2. Ora toccherà come sempre a noi sbrogliarcela, senza scordare che non si costruisce nulla di buono, non si fa nulla impunemente a prescindere dalla “int”.

Riproduzione riservata © Il Piccolo