Terremoto del Friuli, 43 anni dopo: «Io, vigile del fuoco, fui il primo a uscire in mezzo alle macerie tra polvere e morte»

Riccardo Cappelletti aveva vent’anni ed era di leva. Quella sera prestava servizio in cucina nella caserma dell’allora piazzale Cadorna 

Di quella notte non dimenticherà mai l’odore. Che penetrava le narici, che soffocava, che si impregnava nella divisa. «Un odore misto, di polvere, di macerie e di morte». Aveva 20 anni nel 1976 l’udinese Riccardo Cappelletti, oggi caporeparto dei vigili del fuoco in pensione. E quella sera del 6 maggio stava prestando servizio in cucina alla caserma in piazzale Cadorna a Udine. Sentì la scossa («i piatti iniziarono tutti a cadere ma non ci allertammo subito»).

Poi arrivò una telefonata da Madonna di Buja. Chiedevano un sopralluogo in una casa, c’erano delle crepe dicevano. Cappelletti, allora militare di leva nei vigili del fuoco, alle 21.25, partì con altri quattro pompieri. Quella fu la prima autopompa che da Udine raggiunse i comuni rasi al suolo dal terremoto.

«Ricordo tutto di quel mezzo, anche la targa. Aps VF 10343 – dice –. Non ci aspettavamo affatto di trovare quella distruzione, ma ricordo bene che il caposquadra Giuseppe Isola quando stavamo per arrivare a Buja si girò verso di noi e ci disse in friulano “Fruts non la viot ben”, non la vedo bene ragazzi. E noi non capivano perché apparentemente era tutto tranquillo». Lo compresero subito dopo. Quando, all’ingresso del paese, videro le persone correre loro incontro chiedendo aiuto. «Ci sono morti, ci sono persone sotto le macerie, è tutto crollato qui, correte, presto» gridavano.
 

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Le urla squarciavano il buio, mentre la terra non smetteva di tremare. Si doveva agire, subito. Allertare i soccorsi e iniziare a scavare. Ed è lì che Riccardo avvertì quell’odore «mai sentito prima, in nessuno degli altri terremoti in cui ho operato. Quello è stato il momento più brutto, quei pochi secondi di incertezza quando abbiamo compreso che tutto era crollato. Poi il caposquadra ha iniziato a gestire tutte le operazioni. Per fortuna c’erano alcuni radioamatori che ci hanno subito aiutato a dare l'allarme. Ricordo che alle tre di mattina c’era già la colonna di soccorsi arrivata dal Veneto».

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Priorità alle persone intrappolate sotto le macerie. Questo è l’ordine. Si spostano i calcinacci, si puntellano le pareti, si scava a mani nude guidati solo dalle flebili voci che arrivano dall’oscurità, «siamo qui, aiutateci», si salvano vite. Almeno una quindicina nelle prime fasi. Come quella di una bambina di sei anni. «Vicino a lei c’erano la mamma e il nonno morti – racconta –, lei invece era viva, aveva gli occhi aperti ma era sotto choc, non riusciva a parlare. Poi ho saputo che si è ripresa e che è stata bene. Se non ricordo male si chiamava Annalisa, non l’ho mai incontrata».

La notte avanza. Riccardo assieme agli altri vigili del fuoco, l’autista Elso Moro ed Ezio Medeossi non si fermano. Lo faranno solo alle sette di sera del giorno dopo quando rientreranno a Udine. «Assieme a noi scavavano le persone del posto – dice – è proprio vero che i friulani sono straordinari. Vicino a me c’era un uomo che non smetteva di spostare massi, mi girai e notai che non aveva le mani. Mi disse soltanto “Cose passate di lavoro, andiamo avanti” e continuò senza fermarsi».

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Venzone 10 marzo 2017 Panoramiche del paese. Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone



Poi arrivò l’alba. E fu terribile. «Un altro momento bruttissimo – spiega Riccardo che oggi ha 63 anni – è stato vedere il sole alla mattina che illuminò tutto, le case crollate, la disperazione, i paesi che non esistevano più. Ormai cominciavano ad arrivare i volontari molti pure dal mio quartiere, ai Rizzi, tutti pronti a collaborare». Lui, che finita la leva, ha deciso di diventare, come il suo papà, un vigile del fuoco permanente fu in prima linea anche durante tutto il periodo della ricostruzione. Non dimenticherà mai quella notte. E la sensazione unica quando salvi una persona. «È bellissimo, nel dolore generale, riesci a provare gioia e speranza». Per poi ricominciare a scavare, casa dopo casa. Senza mai mollare.

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