Renata Scotto, soprano “Met legend” di New York conquistò Trieste con la “Sonnambula” di Bellini
Originaria di Savona, debuttò a 19 anni in Traviata. Tra le grandi voci della Scala, trovò casa artistica negli Stati Uniti
Il soprano Renata Scotto, scomparsa il 16 agosto scorso a 89 anni, è stata una delle ultime protagoniste di quel mondo della lirica dove i “grandi” erano riconosciuti anche da chi non frequentava i teatri. Lei che nei momenti di relax giocava a carte con Pavarotti e Abbado, poteva ancora raccontare in prima persona ai suoi allievi di canto come fosse quell’epoca dorata, quando sui palcoscenici mondiali si accendevano le tifoserie Callas-Tebaldi. All’inizio degli anni ’50 debuttò precocemente (come ha sempre dichiarato) in Traviata. Diciannovenne, con pochi anni di studio alle spalle e una voce nella quale lo zio marinaio aveva riconosciuto un potenziale meritevole di essere modellato con lo studio a Milano, intraprese una carriera destinata a durare fino ai primi anni Duemila, quando decise di dedicarsi esclusivamente alla regia, interesse che l’accompagnava fin dalla metà degli anni ‘80.
Partita da Savona e da una famiglia fuori dai riflettori (il padre era vigile urbano, la madre sarta), diventò una delle cantanti di spicco della Scala e successivamente trovò una nuova casa, artistica e personale, negli Stati Uniti, dove l’apporto artistico alla storia del Metropolitan di New York fu tale da farle meritare il riconoscimento di “Met legend”.
Lei che aveva vissuto con temperamento e forza di carattere le tensioni e le ripicche che appesantiscono loggioni e backstage nei grandi circuiti della lirica consigliava sempre ai propri allievi di debuttare in teatri piccoli, per poter essere incoraggiati dal calore del pubblico. Certamente ha potuto sperimentare quel calore a Trieste, ingaggiata in dieci titoli che in dieci anni hanno permesso al pubblico della città di accompagnare l’ascesa della sua carriera.
La progressiva affermazione che la portò a diventare una star internazionale si può leggere sulle pagine del quotidiano il Piccolo che, il 14 luglio 1954, commentò in modo lusinghiero ma sbrigativo il debutto triestino della cantante ventenne nei Pagliacci di Leoncavallo al castello di San Giusto con la frase “La signora Renata Scotto ha dato trepida passionalità a Nedda”. Seguirono a breve distanza Turandot, Dama di picche, Il franco cacciatore. I melomani triestini furono certamente attirati da grande curiosità nel novembre del 1958, quando la cantante interpretò al Teatro Verdi Sonnambula di Bellini a un anno di distanza dalla sua sostituzione della Callas proprio in questo ruolo in una produzione della Scala che segnò la sua consacrazione. La fama le valse una fotografia a commento dell’articolo e le lodi della sensibilità con la quale riuscì a esprimere la purezza della linea melodica belliniana.
Non ci furono soltanto titoli di grande repertorio nelle esibizioni al Verdi di Renata Scotto, che nel gennaio del 1957 interpretò la fanciulla Fewronia nella Leggenda dell’invisibile città di Kitež di Rimskij-Korsakov, secondo le cronache “con finezza e forza di mezzi vocali”.
Risultano ancora più entusiastici i commenti documentati del suo ritorno, nel 1960, per un Faust diretto da Oliviero De Fabritiis. Applausi a scena aperta accompagnarono tutti gli interpreti, ma in particolar modo lei, nel ruolo di Margherita. Il Piccolo pubblicò elogi sulla finezza del fraseggio, la “tornitura della parola”, “l’enfasi dell’effusione drammatica”, tutte caratteristiche “governate dalla Scotto con le superbe possibilità del temperamento e della voce obbediente, tersa e luminosa nel rispecchiamento dell’interna emozione”.
In occasione della sua ultima apparizione triestina, nel febbraio del 1964 in Lucia di Lammermoor, venne citata nel titolo come massimo motivo di lustro per il teatro che la ospitava, insieme al direttore Bruno Bartoletti. Della sua interpretazione il recensore lodò “umana passione e virtuosistica vocalità”, i gorgheggi, i colori e gli accenti della voce, la tenerezza “sempre umanamente commossa e commovente”, sfociati nella reazione del pubblico, descritta in termini di “accoglienze entusiastiche, applausi turbinosi, acclamazioni calorose per l’intensità, la vivezza artistica e la penetrazione psicologica dell’interprete”. —
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