L’abate Lazzaro Spallanzani preferì la scienza alla Chiesa. Con risultati geniali
TRIESTE Duecentotrenta anni fa, nell’estate 1793, il piccolo paese di Scandiano, ai piedi dell’Appennino reggiano, fu teatro di un avvenimento singolare che mise in subbuglio non solo quel piccolo borgo emiliano ma anche tutto il mondo scientifico dell’epoca, dando il via a una frenesia di accese controversie e animate discussioni. Il protagonista di questa vicenda era un allampanato abate sessantenne, con la fronte spaziosa e gli occhi neri e vivacissimi, alle prese quell’estate con uno strano fascino per i pipistrelli. Nella rocca medievale dei Boiardo, in cima alla collina che dominava il paese, ve n’erano intere colonie e lui passava le giornate a spiarli, mentre erano appesi a testa in giù a grappoli nei sotterranei e nei solai. Essendogli venuta però a noia questa attività di birdwatcher, pensò invece di attrezzarsi con una grande rete e aprire così la caccia grossa al topo volante, coadiuvato in questa impresa matta dal fratello e da un nipote. E furono parecchi gli sfortunati chirotteri che rimasero avvinghiati nelle reti dell’inedito terzetto capitanato da quel diavolo di abate; le malcapitate bestioline, poste in alcune ceste, furono portate all’interno del castello e qui rilasciate in una stanza.
Il ritrovato senso di libertà dei poveri animaletti si manifestò in uno svolazzare velocissimo di mantelli membranosi, con un andirivieni incessante tra una parete e un’altra, giravolte repentine tra le volte del salone, acuti stridii che riecheggiavano ovunque: una libertà a dire il vero alquanto effimera, visto il destino crudele che li attendeva, come ebbero a sperimentare sulla loro pelle da lì a poco…
Il primo biologo e fisiologo moderno
“Sperimentare” è la parola giusta per parlare del primo autentico biologo e fisiologo moderno, l’abate Lazzaro Spallanzani. Un prete sui generis, libero sia da vincoli filosofici che da credenze religiose, attratto tanto dal mistero della vita quanto dalla miriade di forme che essa assume. La via ecclesiastica, per un giovane benestante come lui, era stata forse una scelta obbligata, un modo come un altro per affrancarsi dai noiosi problemi della vita quotidiana. Nato nel 1729 a Scandiano, indossò l’abito talare all’età di otto anni, a dodici ebbe la prima tonsura e prese definitivamente i voti nel 1763.
Come si capì presto, del suo ufficio clericale gli importava ben poco; officiava messa in maniera irregolare e non si occupò mai di altro, battesimi, matrimoni o estreme unzioni: per lui l’assistenza e la protezione morale della Chiesa erano solo un mezzo per continuare senza problemi le sue ricerche e appagare la sua sete di conoscenza.
Gli studi
Portati a termine nel 1754 gli studi di grammatica e di giurisprudenza secondo i desideri paterni, da quell’anno in poi – grazie soprattutto all’influenza della cugina fisica Laura Bassi, la prima donna laureatasi a Bologna – si dedicò esclusivamente alla scienza, compiendo studi di astronomia, geologia, matematica e botanica, e conquistando rapidamente una grande reputazione europea per le sue originalissime ricerche naturalistiche. Tale fama venne sancita dall’elezione a membro della Royal Society di Londra nel 1768 e dalla cattedra di Storia naturale all’Università di Pavia nel 1769, prestigiosa posizione accademica che mantenne per i successivi trent’anni. Infaticabile viaggiatore e naturalista acutissimo, Spallanzani fu soprattutto un appassionato sperimentatore, sempre pronto a condurre gli esperimenti più audaci per la pura gioia della conoscenza e per il solo culto della verità. Non c’è capitolo delle scienze naturali, infatti, che non serbi traccia del suo operato – dai fenomeni dell’ibernazione a quelli della respirazione, dai processi della digestione alla riproduzione artificiale – e in ognuna di queste indagini ebbe l’intelligenza e l’intraprendenza di un impareggiabile pioniere.
Gli esperimenti
I suoi esperimenti sulla rigenerazione spontanea della coda, degli arti o della testa amputata nei lombrichi, girini di anfibi, lumache e salamandre – fatti nel triennio precedente alla sua elezione alla Royal Society del 1768 – avevano fatto il giro delle Corti d’Europa, suscitando grande curiosità, discussioni tra i sapienti dell’epoca e una vera e propria strage dei poveri gasteropodi. Numerosi furono infatti i naturalisti, ma anche i profani, che vollero ripetere l’esperienza. D’altronde essa era facilmente riproducibile e non richiede- va particolare destrezza: la moda di decapitare le lumache si diffuse come un’epidemia e non fu un bel periodo per gli sfortunati molluschi. Vi fu anche un celebre avvocato che si levò a prenderne le difese, polemizzando contro Spallanzani: «Non fa che stordirci con queste crudeli esecuzioni... carnefici più o meno abili distruggeranno la specie per documentarsi sulle proprietà che la caratterizzano».
Le polemiche
Le sottili implicazioni circa il destino dell’anima della lumaca, una volta che le fosse stata staccata la testa e prima della sua ricrescita, avevano originato polemiche violentissime tra filosofi del calibro di Voltaire e figure religiose altrettanto di spicco: che ne è dell’anima, si chiedevano, quando l’animale è ridotto in pezzi dallo sperimentatore? Se è l’anima a dar vita all’animale e quest’anima è indivisibile – argomentavano in molti – come è possibile che ogni altra parte della lumaca conservi la vita? L’anima sarebbe dunque divisibile, sezionabile? Oppure si rifugia provvisoriamente in uno dei pezzi dell’animale? Vi era abbondante materiale di discussione e di polemica.
Fanatismo per la sperimentazione
Eppure Spallanzani era sempre lì a scavare, a cercare di coprire quell’abisso infinito di ignoranza. Il fanatismo per la sperimentazione e il desiderio di conoscere erano in Spallanzani così estremi da fargli vincere qualsiasi ripugnanza, al punto da trasformare il suo stesso organismo in puro mezzo sperimentale.
Per studiare ad esempio il processo digestivo, di cui all’epoca si sapeva molto poco – c’era chi sosteneva che fosse dovuto alle contrazioni meccaniche dell’intestino e chi invece propendeva per l’azione chimica dei succhi gastrici – non esitò a ingoiare una capsula metallica, forata sulle pareti e legata a una cordicina, piena di mollica di pane.
Essendo incomprimibile, la capsula era ovviamente insensibile alle contrazioni delle pareti intestinali e ogni eventuale digestione del suo contenuto sarebbe stata quindi da ascrivere all’azione dei succhi gastrici. Recuperata la capsula tirando la cordicella su per la gola, Spallanzani notò che l’interno era tutto circondato da una sostanza gelatinosa e che della pallottola originaria di pane rimaneva ben poco.
Era il primo passo verso la comprensione della natura del processo digestivo, che sembrava quindi avere origine dall’azione chimica dei succhi gastrici. Per provare definitivamente questa congettura, gli venne l’idea di procurarsi direttamente una certa quantità di succhi gastrici provocandosi ad arte conati di vomito. Raccolti i campioni di acido in alcune coppette di vetro, aggiunse dei pezzi di carne cotta di manzo, chiuse i recipienti e attese trenta ore, scoprendo all’apertura che la carne era completamente sfibrata e ridotta in poltiglia: attraverso questa esperienza diretta di “digestione artificiale”, risolse dunque finalmente l’enigma.
Gli ultimi anni della vita
La vena polemica, l’acutezza di giudizio e la mania di sperimentare lo accompagnarono con la stessa indomabile energia fino agli ultimi anni della sua vita. Ed eccolo quindi, ormai vecchiarello ma agile come una lepre, sgambettare nelle sale della rocca dei Boiardo per cercare di capire come diavolo fanno i pipistrelli a orientarsi anche quando di luce ve n’è proprio poca. Spente le candele, scoprì infatti che, mentre le civette andavano a sbattere contro le pareti cadendo a terra come stracci, i pipistrelli continuavano a volare indisturbati, schivando tutti gli ostacoli posti da lui diabolicamente nella stanza. Cominciò così un avvincente corpo a corpo tra i topi volanti e l’arzillo scienziato dal lungo mantello nero, così simbioticamente simile alle sue vittime.
Per spiegare quella loro mefistofelica abilità di orientamento, congetturò inizialmente che nella stanza vi fosse della luce residua, visibile solo ai pipistrelli. Seppur plausibile, l’ipotesi fu subito smentita quando chiuse loro gli occhi con delle palline di vischio e poi quando decise di accecarli completamente: infatti, anche prive dei bulbi oculari, quelle povere bestioline riuscivano a volteggiare intorno ai fili tesi tra le pareti, intanandosi a colpo sicuro nelle insenature del soffitto.
Una vera e propria diavoleria, di cui però era necessario venire a capo, a qualunque costo. Accecò allora alcune rondini per capire se anche questi animali volassero senza occhi, ma l’esito fu negativo. Qual era allora il misterioso organo sensoriale di cui si servivano i pipistrelli? L’olfatto? Il tatto?
Con spietata crudeltà raffinò i propri mezzi d’indagine: la svolta si ebbe quando fece colare nelle grandi orecchie del piccolo mammifero la cera di una candela. Fu solo allora che notò lo stordimento totale dello sventurato animale che, cercando di volare, andava a urtare goffamente contro le pareti o gli altri ostacoli. I pipistrelli vedevano quindi con le orecchie!
I pipistrelli emettono ultrasuoni che, riflessi dagli oggetti che trovano lungo il cammino, sono percepiti come eco dai grandi padiglioni auricolari dell’animale. Le strida lanciate dal pipistrello sono molto brevi, dell’ordine del centesimo di secondo, e poiché entrambe le orecchie intervengono nella locazione dell’ostacolo, la distanza viene valutata grazie a un’audizione stereoscopica. Affinché il suono emesso non copra l’eco, il pipistrello, nell’istante in cui lo emette, chiude le orecchie mediante la contrazione di un muscolo e le riapre subito dopo, diventando automaticamente sensibile solo al suono riflesso: un fenomeno di adattamento naturale di rara efficacia e complessità. Uno scherzo della natura, verrebbe da dire, un vero e proprio scherzo da prete.
RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo