Il futurista che elogiò la prostituzione finì alla sbarra difeso da Marinetti

Su “Lacerba” firmò scritti provocatori sulla morale sessuale, ammirando Karl Kraus
Fulvio Senardi

Tra gli autori più sfuggenti e misteriosi della Grande Trieste, le cui tracce ci sforziamo di seguire tra archivi, epistolari e memorialistica, rientra senza dubbio Italo Tavolato. Nasce a Trieste nel 1889, un anno dopo Slataper, che incrociò nella redazione della “Voce”, in quel 1912 che vide attenuarsi la collaborazione di Scipio al foglio fiorentino, e senza che tra i due scoccasse la scintilla dell’amicizia. Il suo faro era piuttosto Papini che lo portò con sé trasmigrando in “Lacerba”, fondata nel 1913.

Ma se alla “Voce” Tavolato aveva collaborato, nell’anno della direzione papiniana, nel ruolo di esperto di letteratura tedesca, dando ai propri interventi un carattere precipuamente informativo (significativo soprattutto un contributo su Frank Wedekind, verso il quale manifesta un giudizio complesso, qualche scintilla d’ammirazione ma sullo sfondo di un sostanziale rifiuto, e alcune riflessioni sulle riviste letterarie di Austria e Germania), sulla sulfurea “Lacerba” si ritaglia un ruolo di acre polemista sfidando, anzi cercando, lo scandalo.

Nella Glossa sopra il manifesto futurista della lussuria, dove si schiera a fianco di Valentine de Saint-Point, autrice di un testo, il Manifesto appunto, duramente criticato dai benpensanti (una rivendicazione del piacere erotico, stilata per giunta da mano femminile!), Tavolato esalta il “desiderio” che alimenta “pienezza ed esuberanza di vita” e che, ricollocando l’eros nella giusta sede, impedisce “l’infiltrazione della libidine nello spirito”.

È qui che l’intellettuale triestino trova il suo tono e il suo tema. Iconoclasta per vocazione e per scelta, quasi reagendo con uno scatto di ribellione contro l’ambiente dal quale proveniva, vicino ai futuristi per anticonformismo almeno quanto se ne differenzia sul piano della scrittura, non esita a prendere clamorosamente posizione nel dibattito pubblico, tuonando contro le “pericolose grullerie moralistiche” e invocando, in antitesi all’etica cristiana, il trionfo dell’“imperativo categorico dell’istinto” (evidente l’impronta di Nietzsche). Una missione per la quale individua un congeniale strumento letterario che nega tanto il pensiero sistematico quanto la pacatezza espressiva della buona letteratura, esaltando invece, così scrive, l’assoluta “sincerità: frammento paradosso aforisma”.

Ma è con il pamphlet successivo, apparso anch’esso su “Lacerba” nel suo primo anno di vita, che ottiene il successo di scandalo cui mirava: l’Elogio della prostituzione, un manifesto che sembra fatto apposta per colpire le più solide convinzioni sociali, ferire la sensibilità cristiana (“più della chiesa vale il bordello”), incrinare l’idea stessa di rispettabilità (ma con atteggiamento ben più frivolo e sofistico rispetto ad altri fustigatori dell’ipocrisia borghese, Ibsen e Strindberg per esempio). Atteggiandosi a profeta (e il pensiero va a Nietzsche e al Vangelo), Tavolato conclude così la sua provocazione: “In verità vi dico: chi odia la prostituzione resta irrimediabilmente cretino. In verità vi dico: chi va sparlando che la prostituzione sia un male necessario, è un malfattore”.

Ce n’era a sufficienza per una denuncia e per un processo che ebbe in effetti luogo nel 1913, con Marinetti testimone a discarico. Bella pubblicità per il testimone e per l’imputato che venne assolto nel gennaio 1914. Il verbale del processo riporta che Tavolato sostenne il carattere filosofico del suo scritto, giustificando la scurrilità della forma con il principio di libertà proclamato dai futuristi: libertà nel ritmo, nelle parole, nella fantasia. Seguiranno poi altre sparate su “Lacerba” dell’anno secondo: la Bestemmia contro la democrazia (“l’impero delle bestie da soma”) e la Bestemmia contro il giornalismo, “la diarrea delle penne” (“l’ideale del giornalista: immortalità cotidiana”, suona un tagliente aforisma del triestino).

Il tema sul quale Tavolato andrà in seguito organizzando le proprie esternazioni d’anteguerra (sarà interventista ma non soldato) è comunque quello della morale e della morale sessuale in particolare, facendosi promotore e seguace del massimo aforista austriaco di quegli anni, Karl Kraus. Il raccordo con Vienna ha, del resto, giustificazioni anche extra-linguistiche: Tavolato, che vi aveva studiato per qualche tempo, si era permeato dell’atmosfera di una città particolarmente sensibile alle tematiche dell’eros, dell’istinto, e della polarità maschile-femminile, e che stava vivendo una contrastata temperie emancipazionista (si vedano Weininger, Schnitzler, Freud).

Traduttore, sulle pagine di “Lacerba”, di Kraus e di altri grandi cultori della forma breve, e aforista in proprio nella scia del maestro (e non solo in rivista visto che presso l’Archivio Bonsanti è stato scovato da I. Fantappiè un manoscritto inedito che sarebbe bello veder pubblicato), egli dà il meglio di sé in brevi, urticanti frammenti, caratterizzandosi per una cifra unica e inconfondibile: frustate di sarcasmo con un sovrappiù di preziosità formale.

Complicato e in parte oscuro il suo percorso nel Dopoguerra. Nel 1918 fonda una rivista, “Eros”, che muore al primo numero. Si trasferisce a Capri dove frequenta il milieu degli artisti, spostandosi su posizioni rigidamente tradizionaliste tanto da sposare l’ambiguo classisicismo di “Valori plastici” pur apprezzando la satira anti-borghese che celebra in una monografia su Georg Grosz. Dal 1925 è in Germania dove si fa mediatore di letteratura italiana su riviste e giornali, e aderisce infine al regime di Mussolini per il quale accetta perfino di operare come informatore (secondo quanto ha mostrato Mauro Canali).

Una svolta che trova nella collaborazione al “Tevere” di Telesio Interlandi, organo del fascismo oltranzista, l’espressione più evidente. Dopo la guerra è sostanzialmente un sopravvissuto che non fa più parlare di sé né ha voglia di farsi ascoltare. Lo aveva predetto: “in cinquant’anni si vive, sì o no, due o tre anni”. Si spegne nel 1963 in un Paese che l’aveva dimenticato.

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