I migranti ingannati lasciavano Trieste in cerca di una nuova vita nelle Americhe

Gli incaricati delle agenzie marittime promettevano guadagni facili per alimentare i viaggi della speranza
Pierpaolo Martucci

TRIESTE “Due anni fa uno di quei soliti agenti di emigrazione, che infamemente speculano sulla ingenuità e sulla ignoranza dei poveri contadini, recavasi a girare per la Galizia, cercando di fare delle vittime col decantare la strabiliante ricchezza del nuovo mondo. Molti furono gli ingenui che abboccarono all’amo e che, dopo aver venduto tutto quanto possedevano, seguirono il tentatore”. Inizia così un breve articolo comparso sul Piccolo del 9 luglio 1897, sotto il titolo “Il fascino dell’ignoto. Disinganno amaro”.

Allora come oggi, spesso la decisione di emigrare non era frutto di una scelta consapevole, ma indotta da manipolazioni e suggestioni alimentate da una vera industria dei “viaggi della speranza”. Al tempo erano gli incaricati delle agenzie marittime e di trasporti a fomentare le partenze, battendo le campagne e distribuendo opuscoli con promesse straordinarie. Reclutavano così una clientela assai redditizia, sotto una parvenza di legalità e con metodi appena meno brutali – ma egualmente cinici – di quelli dei trafficanti odierni. Trieste era la meta naturale per quanti, dal cuore del continente, salpavano in cerca di una nuova vita. Tra il tardo Ottocento e la vigilia della Grande Guerra, diviene tappa obbligata per la maggior parte di quanti abbandonano le contrade rurali delle grandi piane agli estremi confini dell’Impero, soprattutto dalle zone più povere e arretrate della Galizia. È tramite “una compagnia di navigazione triestina” che il figlio minore di Mendel Singer – il “Giobbe” di Joseph Roth – parte per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle il misero villaggio natale.

Ma per tanti popolani della Rutenia e della Bucovina – piccole patrie oggi divise tra Ucraina e Romania - la terra promessa sta nell’America del Sud, ed è il Brasile, che viene loro descritto come un Paese opulento, dove piantagioni e commercio consentono a chiunque di prosperare. In genere la realtà è ben diversa: i protagonisti della vicenda narrata dal cronista nostrano, giunti in treno a Trieste “dai loro rispettivi paesi”, si imbarcano per Genova e da lì sul piroscafo per la traversata atlantica, illudendosi di trovare ricchezze “mentre invece la miseria, la fame e le sofferenze li attendevano”.

Dopo i disagi del lungo tragitto marittimo e altre traversie, giunti alla meta, l’atroce delusione: “Invece dei tanto decantati fertili terreni ai loro sguardi si presentava una incolta landa rocciosa, invece della ricchezza fatta loro intravvedere, la miseria più squallida. Sbarcati, come un gregge di montoni furono ricoverati in sudice tettoie senza distinzioni di famiglia né di sesso e sopra della misera paglia dovettero dormire, esposti a tutte le intemperie del clima”. Sfumati i pochi danari, devono adattarsi “ai più gravosi lavori per un misero compenso non bastante nemmeno per comperarsi un po’ di farina”. E alla fine molti di loro, “causa la fame, i disagi e altre dolorose circostanze”, trovano la morte in quella terra ostile, “imprecando a colui che con false lusinghe li aveva strappati dal suolo natio”. Il console austroungarico a Rio de Janeiro, “impietosito”, provvede al rimpatrio di tre famiglie. E nel luglio del 1897, il piroscafo Tisza li riporta a Trieste, “laceri, piangenti, recanti sugli smunti volti l’impronta delle orribili privazioni sofferte”. Ma queste esperienze non sembrano ammaestrare nessuno.

Esattamente quindici anni dopo, col titolo “Drammi della pazzia a bordo d’un transatlantico”, il Piccolo pubblica la trama di una vicenda non meno amara. La storia è quella di Rodolfo Kittech, 29 anni, un contadino della Bucovina che “preso anch’egli dalla febbre comune a tanti disgraziati”, abbandona tutto per raggiungere Trieste, dove riesce a imbarcarsi su una nave della Austro-Americana in rotta per il Brasile. Arrivato a Rio de Janeiro viene sottoposto alla visita medica prevista per gli immigrati e si scopre ciò che aveva a lungo tentato di occultare: i segni incipienti della tisi. Ai malati non è consentito l’ingresso in terra brasiliana e viene respinto.

Il rientro forzato in Europa implica “il crollo del sogno di oro e di fortuna che egli aveva fatto; ciò significava rimetterci le spese del viaggio sopportate a costo di chissà quali sacrifizi… A tanta jattura il cervello del disgraziato” non regge. Imbarcato sul piroscafo “Atlanta” – anch’esso della Austro-Americana – nel corso della traversata inizia a dare segni manifesti “di squilibrio e di agitazione morbosa”, in forme sempre più allarmanti. Tanto che il medico di bordo lo fa ricoverare in infermeria dove è sottoposto a una stringente sorveglianza. Ma dopo un paio di giorni, trovandosi solo con un’infermiera, la aggredisce ferendola al collo e al petto con un lungo coltello che era riuscito a nascondere sotto il materasso, eludendo le accurate perquisizioni. Subito bloccato, Kittech viene rinchiuso in una cabina, dove la sua condotta si fa sempre più violenta: colpisce al capo “con il vaso da notte di ferro smaltato” l’infermiere che gli porta il pranzo, causandogli una “gravissima lesione con commozione cerebrale”, tanto che il poveretto viene sbarcato allo scalo di Napoli e ricoverato in ospedale.

Dopo quest’ultimo episodio il contadino sembra calmarsi. Nel primo pomeriggio del 2 luglio 1912 l’Atlanta entra in rada a Trieste, ormeggiandosi al Punto franco per le pratiche d’uso. Il comandante si reca dal dirigente dell’ufficio portuale di pubblica sicurezza, certo Hermann, per fare rapporto su quanto era accaduto durante il viaggio. Di conseguenza viene convocato il signor Gino Treves, responsabile di un servizio infermieristico molto noto in città, specializzato nella gestione dei pazienti psichiatrici, specialmente quelli pericolosi. Dovrà prendere in consegna Rodolfo Kittech per condurlo “al Frenocomio”. Ma “oramai non v’era bisogno di alcun provvedimento”: quando la porta della cabina viene aperta, ciò che trovano è un cadavere. L’uomo si era impiccato “mediante una striscia di tela al telaio della porta”. Come verrà accertato dal medico della Capitaneria che esamina il corpo, Kittech si era suicidato “nel momento in cui il piroscafo era giunto in vista della città”.

Partito dalla Bucovina con il miraggio di una vita migliore, il contadino aveva bruciato i ponti, esaurito ogni risorsa, senza un luogo in cui fare ritorno. Non da folle ma lucidamente, si era reso conto che il suo viaggio era finito. Per sempre.

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