Giovanni Porro, il “capitan spot” triestino vincitore di un Leone d’Oro
È uno dei pubblicitari più geniali. «Ho lavorato con
il regista Spike Lee con Andy Warhol e Gabriele Salvatores»
TRIESTE Ci saremmo potuti conoscere a Milano, ma non è successo, e in tanti anni, dagli ’80, è ben strano. Ci siamo solo sfiorati/incrociati e abbiamo scoperto adesso che abbiamo alcuni conoscenti in comune. Mi ha dato appuntamento a Trieste, dove viene regolarmente. Giovanni Porro è un numero uno nel mondo della pubblicità, e alcuni suoi lavori li ho sempre considerati geniali. Non sapevo fosse triestino anche lui.
Triestino doc?
Prima triestino, poi carsolino perché ci siamo spostati a Rupinpiccolo, dove papà aveva costruito una casa negli ’70, poi sono andato a Udine per studiare grafica pubblicitaria, quindi sono diventato duinate e infine milanese. Sono nato in una casa esposta alla bora, ai libri d’arte, alla psicoanalisi e agli studi orientali.
Perché torna a Trieste?
La prima ragione è la famiglia, che è enorme, mia nonna paterna aveva avuto dieci figli, ho un’ottantina di cugini e quando facciamo i ritrovi è un evento. Vengo per mia madre, ma anche perché Trieste è la mia città, racchiude le mie memorie primordiali. Anzi, a volte, dopo un week-end qua, mi chiedo perché ritorno a Milano. Il legame con Trieste è ancora molto forte.
Famiglia tutta triestina?
La mia storia famigliare è abbastanza particolare. Mio nonno Pietro Gentilli, nato a Parenzo, che lavorava in banca, è stato anche scrittore e giornalista. Si è sempre occupato di psicanalisi ed è poi diventato un orientalista di gran pregio. Gli si è aperta questa strada che poi ha percorso per tutta la vita: è stato il traduttore di Mère e Aurobindo. Mio fratello, seguendo il tracciato del nonno, vive in India da 25 anni. Mia madre passava sei mesi all’anno in India. Da parte di mio padre veniamo da Pinguente (Istria) e prima ancora dall’entroterra tra Dalmazia e Montenegro. Nei secoli la famiglia ha cambiato tre volte cognome, a causa delle ‘pulizie anagrafiche’: eravamo Poropatich, sotto Venezia fu trasformato in Poropat, infine, sotto Mussolini, siamo diventati Porro.
Quando e come è arrivato a Milano?
È stato per puro caso, anzi, per amore! Ho accompagnato una persona conosciuta d’estate che aveva le idee molto più chiare delle mie, voleva andare a Milano e fare l’art director in pubblicità. Aveva una zia account in una nota agenzia internazionale inglese. Lei parlava una lingua per me aliena, io non sapevo nemmeno che cosa volessero dire questi ruoli… account, creativo, art director… L’ho accompagnata, 40 anni fa, e non sono più tornato.
E che cosa è successo?
Con lei abbiamo frequentato un po’ di agenzie e ho capito di che lavoro si trattava, cioè che era divertente e interessante. E anche stimolante economicamente, ma in realtà non è stata questa la ragione, è un mestiere che si incomincia per passione. In quegli anni nel mondo della pubblicità fluiva il meglio: copy writer provenienti dal giornalismo, dall’editoria, da lavori intellettualmente stimolanti, e tra gli art director c’erano architetti, persone che venivano dal mondo del design, della moda… E quindi incontrarsi intorno a un tavolo di un’agenzia pubblicitaria voleva dire incontrare il meglio dei mestieri artistici. Allora Milano era la “Milano da bere” e gli interlocutori erano i migliori clienti con le migliori possibilità economiche possibili, con budget che ti consentivano – io avevo solo 22, 23 anni - di pubblicare le tue idee, le tue visioni del mondo sui più grandi quotidiani e sui muri di tutta Italia.
A Milano in quegli anni parecchi dei più importanti responsabili comunicazione erano triestini. Secondo lei ha un senso?
Ho incontrato parecchie persone interessanti e molto stimate che venivano dalla mia stessa città. Comunque ogni volta che mi chiedevano di dove fossi e rispondevo “di Trieste” facevano “ah!”. Dire di essere triestino provocava sempre una reazione positiva, perché è una città che ha sempre incuriosito, un po’ misteriosa. In quell’epoca lì, infatti, pochi si spingevano nel far east d’Italia, se non di passaggio. Del resto allora in pubblicità, di milanesi ne ho conosciuti pochissimi: i miei primi maestri, Emanuele Pirella, era di Parma, Michele Göttsche, di Amburgo. Per non parlare di registi, fotografi, tutto l’artigianato artistico che la pubblicità usava per realizzare le campagne era il meglio che l’Italia, e non solo, offriva. Era una delle poche attività che ti metteva, e ti mette ancora, in contatto con i migliori professionisti della comunicazione a livello internazionale.
Incontri memorabili?
Tantissimi! A 24 anni, per esempio, ho passato una settimana a casa del fotografo Helmut Newton, persona semplice e gentile. Sono stato a Parigi a casa sua, vicino agli Champs-Èlysées. Mi ha regalato una foto in bianco e nero autografata, che fa parte dei cimeli che ho raccolto durante questo mestiere. E poi, sono stato una settimana a New York con il regista Spike Lee. Ho lavorato anche con Andy Wahrol, Gabriele Salvatores, sono venuto quasi alle mani su un set con Paolo Sorrentino… Incontri che con altri mestieri non avrei mai potuto fare. Grandi talenti che si prestano alla pubblicità e non si vergognano di farla. È molto italiano questo imbarazzo di mettersi al servizio del commercio e dell’industria, mentalità che io non ho mai capito.
Parlavamo dei triestini: secondo lei perché siamo considerati bravi nella comunicazione?
Dove li si trova sono sempre molto acuti, taglienti, molto dentro. Forse – non so se è la ragione giusta – c’è un’indole di fondo che potrebbe contribuire a rendere il triestino un mestierante nell’ambito dei desideri e delle emozioni umane. Perché è una città che porta all’introspezione. Probabilmente perché è l’unica grande città di frontiera italiana. Ha delle contraddizioni micidiali: è una città aperta perché è sul mare, e il mare è una porta spalancata sull’ignoto, che ti impone curiosità e una sorta di propensione all’accoglienza. E l’altra è perché è stato un confine molto duro per tanti anni. Quindi questo contatto continuo con lo straniero, il nuovo, il diverso, ti spinge a un’attitudine molto più matura e raffinata nella comprensione dell’altro. Non a caso è stato uno degli epicentri della psicanalisi: ha trovato in questo substrato un terreno fertile. A casa mia c’erano libri di psicanalisi dappertutto, anche in bagno.
E allora?
Questa necessità di andare sempre al di là e dentro le ragioni dell’altro, ci facilita probabilmente nel saper indagare nelle menti e nei desideri altrui. Se dobbiamo raccontare o vendere qualcosa a qualcuno bisogna mettersi nei suoi panni e questo è un lusso che alcune culture fanno molta fatica ad acquisire, mentre c’è in noi una predisposizione a non spaventarsi di fronte a ciò che non conosciamo.
Mi parli del suo mestiere.
Fare comunicazione pubblicitaria non è arte pura, usa il talento e l’esecuzione artistica al servizio dell’industria. Anche se adesso grazie ai social media tutto sta cambiando, perché una volta la “reclame” si faceva per vendere prodotti, oggi in realtà serve a proporre punti di vista sul mondo. I brand non sono più solo merce da mettere a scaffale. Il brand che funziona deve posizionarsi nel cuore delle persone, non solo nel suo portafoglio. Quindi fare pubblicità oggi significa vendere contenuti costruttivi e interessanti per la sua audience. Le grandi marche oggi sono molto attente alla relazione con gli utenti.
Il nome della sua agenzia sembra un manifesto: “I’m not a robot”. Perché?
È la nostra risposta per rassicurare i futuri interlocutori che dietro questa sigla non c’è intelligenza artificiale (per quanto la usiamo però in fase di progettazione e simulazione) ma ci sarà sempre un essere umano. In futuro tre quarti dei lavori banali lo faranno gli algoritmi, però per i colpi di genio serviranno sempre gli esseri umani. Tra l’altro io mi sono sempre imposto, e me l’hanno sempre insegnato anche i miei maestri, di avere un grandissimo rispetto per il pubblico. Perché chi ti ascolta – il consumatore – può essere tua moglie, tuo fratello, tua madre. La pubblicità è una violenza che fai alle persone, le costringi a vedere qualcosa che non hanno chiesto, almeno che sia intelligente o divertente o costruttiva.
Il suo spot più famoso, “The Sculptor”, Leone d’Oro a Venezia nel 2003, come è nato?
Il lavoro più importante che io abbia fatto - nonostante in famiglia io sia stato il meno spirituale di tutti, il più milanese - il lavoro che mi ha contraddistinto ha a che fare con l’India. Mi immagino mio nonno che se la ridacchia, lassù! L’ispirazione mi è arrivato dopo una vacanza in India dove ero andato a trovare mio fratello. Stavamo noleggiando dei motorini e vidi il meccanico che stava saldandone due, per creare un mezzo di trasporto nuovo. Questo mi deve essere rimasto dentro, perché stavo pensando a questo spot internazionale da tre mesi, non veniva un’idea interessante, non solo a me, ma nemmeno a tutti gli altri creativi internazionali che ci lavoravano. Sono rientrato a Milano e a mezzanotte, davanti a un foglio bianco, mi è venuta l’idea. Anzi, ho “visto” il film scena per scena. L’ho scritto in quattro minuti, esattamente così come si è visto, il ragazzo indiano, l’elefante… Non è stato facile farla accettare dal cliente, ma poi è girata in 42 paesi, ed è durata tre anni. È la campagna più premiata al mondo nella storia della pubblicità.
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