Arriva il trapano e stavolta l’ispettore Titz non riesce ad acchiappare gli scassinatori
Dalle cronache vintage de “il piccolo”. Nel 1905 le nuove tecniche adottate dai ladri per aprire le casseforti mettono fuori gioco la polizia

«I cittadini credevano che gli ignoti eroi del trapano silenzioso, essendo ormai abbastanza ricchi, si fossero ritirati dagli affari e che il loro prezioso ordigno fosse stato deposto in qualche Museo. Illusioni». Così, il 17 dicembre 1905, un articolo del Piccolo traccia lo sconsolato bilancio della nuova tecnica padroneggiata dalla criminalità cittadina, sempre meno arrangiata e casalinga. Si tratta della comparsa di un tipo di trapano particolarmente efficace, in grado di perforare rapidamente e quasi senza rumore casseforti e armadi blindati, da cui l’appellativo di “silenzioso”. I primi fatti risalgono al 1903 e, nel riferire l’esito dell’ennesimo assalto a “una forte ditta”, il giornalista sentenzia, non senza sarcasmo: «Con quella di ieri i famosi ladri trapanarono nella nostra città già 25 casseforti ed oggi i mariuoli festeggieranno il raro giubileo. Che invitino anche qualche rappresentante della Polizia? Capaci di farlo (…) Dalle 25 casseforti fu rubato l’importo complessivo di 158.000 corone».
Un bottino ingentissimo cui, un mese dopo, si aggiungono quasi 4000 corone sottratte col solito sistema all’amministrazione dell’Ospedale Civico. Quanto alla polizia, nel tempo trascorso non sembra aver dato gran prova di sé, nonostante l’attivismo del solito Giorgio Titz, funzionario giunto ormai all’apice della carriera e che tuttavia sembra aver perso parte di quella magia che lo aveva reso lo spauracchio dei malandrini nostrani.

In pratica, le lunghe investigazioni incappano in clamorosi errori, spietatamente denunciati dalla stampa locale. È il caso, nel settembre 1905, del facchino Francesco Tragher, detto “Nando Baul”, arrestato con l’accusa di essere uno «degli eroi del trapano silenzioso», coinvolto nello svaligiamento degli uffici postali di Piazza Tommaseo. Quella era stata una sorta di spartiacque nella sequela di imprese dei “trapanatori”. Pare che il capo della Polizia avesse ammonito i sottoposti: «Gli autori di questo furto bisogna assolutamente trovarli, bisogna fare l’impossibile!».
Ma, anche grazie alle indagini condotte dal reporter del Piccolo, si dimostra che l’uomo, all’epoca dei fatti, era “sotto catenaccio”, ossia in stato di arresto cautelare. Tragher, con altri, viene rilasciato e “il pallone dunque si sgonfia”.
Appena nel giugno 1906 le guardie riescono a fermare il presunto capo della banda, un pregiudicato, tale Giovanni Gherson, conosciuto come “Nino Strazzariol”. Ma al processo in Corte d’Assise, iniziato in ottobre, chi tiene banco con affermazioni insolitamente polemiche è ancora una volta Giorgio Titz. Alla Direzione di Polizia – racconta – «erano tutti in subbuglio e avevano perduto la testa» per i continui fallimenti. «Egli solo si manteneva calmo», perché conosceva «l’organizzatore e il capo della banda», appunto il Gherson. Ma costui – consapevole di essere sorvegliato – «anziché farsi pedinare preferiva pedinare». Di fronte alla Corte, Titz lamenta l’inadeguatezza delle risorse rispetto a una delinquenza che si è evoluta con la modernità: impossibile sorprendere i sospettati che «si telefonavano da caffè in caffè» e potevano contare «su altri mezzi». Il detective, invece, «non aveva né agenti, né danaro disponibile», e nella carenza di strumenti essenziali non poteva completare l’inchiesta: «se volesse narrare tutto quanto il Gherson e i suoi amici fecero, ci sarebbe materia di un romanzo».
All’avvocato difensore che si meraviglia che Titz già nel 1903, grazie alla rete dei suoi confidenti, fosse a conoscenza dell’identità degli scassinatori e ciononostante avesse lasciato fare, il funzionario ribatte, in dialetto: «Cossa la vol? E no ghe go dito che me sorvegliava? Quella volta del furto Bruni, me ga tocà scampar, perché i me ronzava vizin». Una giustificazione che suscita sconcerto. Un “lettore” del Piccolo scrive con pesante ironia: «Come cadono tutte le illusioni! Malgrado i tre annetti di scassinamento ininterrotto (…) pure era ancora convinzione sincera della maggioranza della popolazione triestina che fossero i signori ladri quelli che fuggivano quando si imbattono in qualche rappresentante della pubblica forza. Oh santa ingenuità!». E in udienza un legale nota che Titz «non fu negli ultimi tempi all’altezza della situazione».
Ma il poliziotto non sembra aver remore nella testimonianza. A proposito del quesito che i giornali avevano spesso sollevato («ma dove son andati i denari rubati che non si trovano?») precisa che il gran numero di affiliati alla banda determinava la spartizione del bottino in somme ridotte. Soprattutto, alcuni riciclavano, per usare un termine attuale: «sta il fatto che parecchi di loro hanno messo su esercizi e osterie, dei quali altri figurano proprietari». Senza tralasciare le straordinarie “fraie” organizzate «alle Noghere e in altri siti, con vetture a propria disposizione per ore e ore e anche per tutta una notte e con sturamento di 80 bottiglie persino!». Afferma inoltre che non si tratta di «ladri comuni, di quelli che rubano per bisogno: si può dire che lo fanno per ‘sport’; perché son tutta gente che col mestiere guadagna più che abbastanza per vivere».
Ma infine quale era stata l’entità precisa del bottino? La stampa aveva riportato una stima di quasi 160.000 corone, ma l’“aggiunto della direzione di polizia” fornisce una versione ben diversa: «Complessivamente si può calcolare che l’importo dei furti commessi dalla banda ascende a corone 90.000; gli altri furti che sono stati denunciati come tali non sussistono ma sono stati simulati dai padroni che dicono di essere stati derubati». Ovviamente queste parole suonano male ai commercianti della città. E sotto il titolo “Uno che la sa troppo lunga”, un cronista del Piccolo commenta: «Gli accusati e i loro colleghi di lavoro possono certo esser contenti di questa deposizione (...). Ma quale faccia faranno i derubati a questa uscita del sig. Titz? (...) Certo è comodo per un organo della pubblica sicurezza l’affermare che tutta una serie di furti, dei quali non si riuscì a rilevare gli autori, semplicemente “non sussistono”; ma non è comodo per i derubati l’esser presi nel mazzo delle persone capaci di furfanteria: e ciò proprio risulta dal singolarissimo bilancio sommario fatto dal sig. Titz, e del quale crediamo non vi sia il precedente negli annali della polizia né in quelli della giustizia».
Dopo un lungo idillio il mito sembra scolorire, cedere a un disincanto cui non sfugge lo stesso protagonista, a disagio nelle nuove realtà. Quanto ai “trapanatori”, a Trieste ben presto altri tornano ad agire: i ladri stanno al passo coi tempi, le guardie arrancano.
Riproduzione riservata © Il Piccolo