Aldo Bressanutti dormiva nei portoni di quella Cittavecchia che poi ha dipinto in settant’anni d’arte
Una vita avventurosa e a suo modo “spericolata”. Quella di un artista dalla ricca capacità inventiva, in grado di fantasticare anche in modo del tutto inatteso quanto convincente, ligio alla famiglia e all’arte: il 31 ottobre prossimo compie cent’anni Aldo Bressanutti, tra i decani della scena artistica regionale, che nella sua lunga vita ha saputo solcare con talento, coraggio e intraprendenza la difficile strada della pittura. Di famiglia triestina, è nato sul ponte di Latisana su un carro di carbone condotto dalla madre. Ancora in forma per la sua età, vive da solo a Monfalcone e continua a dipingere un universo tratto dal quotidiano ma anche dalle profondità più inaccessibili dell’inconscio, intriso d’ironia e apparente disincanto, che cela in realtà un animo profondamente sensibile.
Ha realizzato più di 1500 dipinti e oltre 1500 grafiche e disegni. Autodidatta, ha creato sia opere d’ispirazione narrativa, che lo hanno reso subito molto popolare, e surreali. Ha esposto con successo in tutto il mondo e illustrato con segno efficace sei volumi su Trieste, Friuli Venezia Giulia, Istria e a Muggia. Nel ‘98 la casa editrice Lint gli ha dedicato una monografia per i suoi cinquant’anni di attività. È autore di numerose copertine di libri e manifesti, tra cui le illustrazioni surreali dei primi anni Settanta per copertine di volumi di fantascienza e per il manifesto del Festival della Fantascienza.
Maestro, quando è nata la sua passione per l’arte?
Vive in me da sempre. Con i primi soldini ho acquistato 3 pennelli e tre colori, ho tagliato un pezzo di tela di una branda dell’obitorio dell’Eca (Ente Comunale di Assistenza di Trieste), dove tra i 10 e i 14 anni ero ospite incostante, e ci ho dipinto sopra. Di me bambino non ricordo che fame, freddo, abbandono, gatti… Ho lavorato sempre, a 8, 9 anni portavo i teli, su cui il fornaio faceva raffreddare il pane, in un posto in Cittavecchia dove li lavavano e poi li riportavo indietro. Con il ricavato compravo un cartoccio di sardoni fritti. Ero retribuito più per pietà che per questioni sindacali.
Com’era la sua famiglia?
Il babbo quasi non esisteva, sopraffatto dalla forte personalità di mia madre, lavorava in cantiere e qualche volta lo si vedeva all’osteria. Era l’unico che la sopportava. Di lei invece ricordo tutto. Vendeva carbone perciò doveva in qualche modo rapportarsi con clienti e gente che incontrava, con cui andava a prendere un bicchiere di vino e una zuppa. Comandava anche su di me, che in realtà contavo poco o niente o almeno così pensavo. Ero estremamente libero e avevo sempre l’impressione che qualcuno si fosse dimenticato di me, gioivo e pativo nel contempo l’abbandono, che poi significa libertà e indipendenza. Di mia madre avevo l’impressione che i suoi orari non coincidessero con quelli della brava gente perciò quando avevo freddo mi rifugiavo spesso a dormire nei portoni di Cittavecchia e d’estate nel giardino davanti alla Posta centrale, abbastanza protetto sotto quei rovi assieme a molti gatti e altri ragazzini. Dormire a casa su un sacco o in un portone con o senza sacco era la stessa cosa.
E a scuola ci andava?
Sì e no ma ci andavo contento perchè tutto sommato mi piaceva, dipendeva tutto dagli insegnanti che erano terribili. Assai più maturo degli altri, imparavo ad adularli e imbrogliarli con quelle nozioni di cui ero sempre affamato. Poi mi hanno messo in collegio a Gradisca d’Isonzo, dove ho appreso un po’ di falegnameria: non l’ho vista come una punizione ma come premio perchè finalmente avevo un posto dov’erano garantiti cibo, protezione dalle intemperie e una vita regolata. A Gradisca conobbi Anita, la mia ragazza, unica e per sempre, che nel ‘48 sposai, festeggiando in modo commovente e molto genuino con le lenzuola a mo’ di tovaglia su un tavolaccio nell’appartamento in via Cadorna dov’eravamo in subaffitto.
E ancora prima?
Nel ’43 avevo fatto il militare, poi fui deportato in un campo di lavoro a Mannheim e Ludwigshafen, dove non ci odiavano, eravamo oggetti. Nel ’45, dopo la resa della Germania, sono andato a piedi in Austria e sono rimasto a mungere mucche sulle montagne di Innsbruck da un certo Franz, con il quale negli anni Ottanta ho organizzato una mia mostra. Nel ’47 sono tornato in Italia. Arruolato nella polizia civile, ero a Pola tra gli addetti alla protezione degli italiani in attesa dell’esodo: un clima difficile, di cui ho scritto qualche racconto. Poi mi hanno messo a disegnare carte geografiche. Nel ’54 a Muggia ero scavafosse in cimitero, poi bidello ma a scuola avevo un’aula mia dove dipingevo e insegnavo pittura.
Quali erano i suoi rapporti con i pittori locali?
Con Villi Bossi e Giovanni Duiz era un triumvirato, non concorrenza ma amicizia e aiuto reciproco: ci completavamo, Bossi, scultore e disegnatore, il cui segno sa gestire le masse, e Duiz, poeta purtroppo sottovalutato. Con gli altri ci fu un rapporto pessimo perchè il mio modo di dipingere smascherava l’incapacità non artistica, ma tecnica di dipingere, di molti, generando gelosie. L’unico mio maestro, sotto il profilo tecnico e per poco tempo, è stato Cesare Sofianopulo.
Nei primi anni Cinquanta ha iniziato con il Surreale, com’è nata l’idea?
Il quadro surreale mi consente di essere assolutamente libero anche dalle forme dell’oggetto stesso, è per me sfogo assoluto. Negli interni ed esterni non posso stravolgere l’oggetto, mentre dei surreali faccio quello che voglio. Il rischio è cadere nel fumetto e quindi nel surreale sono fondamentali uso del colore e sfumature. I miei surreali hanno avuto molto successo soprattutto fuori Trieste. Poi Flavio Tossi mi ha portato a Parigi alla mostra di Magritte e lì è caduto il mondo. Ho deciso che non potevo fare le cose di altri, anche se Magritte è molto diverso da me. Poi mio figlio mi ha spinto a riprendere. Forse non aspettavo altro.
Come ci si sente a cent’anni?
Assai preoccupati e orgogliosi, si vive alla giornata e molto coccolati. Nel mio caso, con un bilancio di vita positivo.
Riproduzione riservata © Il Piccolo