Colja, un salto di qualità. Agriturismo e camere. «Troppo pochi 60 giorni»
Noris Vesnaver Colja è una donna che comunica positività e che ha preso in mano il suo destino. I grandi occhi azzurri e un sorriso facile a sbocciarle in viso sono un ponte verso l'altro: ci si sente subito a casa. Accoglie gli ospiti nella storica osmiza di Samatorza, una delle ultime abitazioni in cima al paese, divenuta negli anni anche agriturismo con posti letto. Il luogo continua a portare il nome del marito Jozko, scomparso nel settembre del 2016 a causa di un tragico incidente avvenuto proprio nell'edificio, mentre era al lavoro con una pressa.
«Reagire e portare avanti l'attività, l'azienda agricola e l'osmiza è stato un dovere morale ma anche una salvezza» dice Noris. «Mio marito ci ha messo tutto qui – racconta – viveva per questo posto e per questo posto è morto. Gli dicevo, scherzando, che voleva più bene all'azienda che a sua moglie. Per me sarebbe stato impossibile lasciare».
Erano sposati dal 2006, quando ancora Noris viveva per parte dell'anno in Toscana facendo spola. Carsolina, originaria di Santa Croce, si era spostata a Montalcino per la voglia di sperimentare, trovando impiego presso l'azienda Frescobaldi. Dopo essersi occupata di pubbliche relazioni e diventata sommelier, ha iniziato a gestire Wine tours per il mercato americano, viaggiando in varie zone d'Italia a vocazione vitivinicola. Fino al ritorno a casa, per poter stare più vicina ai genitori e per dare man forte al marito in pianta stabile.
La famiglia Colja pare sia stata la prima ad aprire una frasca a Samatorza, nel 1956, quando ancora la stalla, che oggi ospita un bel caminetto e i banconi circondati dai muri in pietra a vista, non era stata ristrutturata e adibita a sala per gli avventori. All'epoca, i visitatori venivano accolti in casa, nella cucina e in una piccola cameretta, o nel cortile, quando la stagione lo permetteva. «Utilizzavano lo stesso bagno della famiglia, al piano superiore», ci racconta Ljuba Colja, la cognata di Noris. «C'era miseria – dice – quella volta non avevamo mensile o paga, vivevi di ciò che avevi: latte, vino, ortaggi e fiori, che i miei vendevano al mercato, a Trieste. Riempivamo una macchina al giorno e si andava giù. Finché mio padre ci ha lasciati e abbiamo iniziato ad avere troppo lavoro. Mio fratello ha deciso quindi di puntare sulla viticoltura e sull'allevamento di maiali».
«Ci aiutavano molto – spiega Ljuba - le vendite di quegli otto giorni. Si poteva arrivare al massimo a due settimane: se non vendevi tutto, facevi richiesta e ti davano qualche giorno extra. I guadagni venivano sempre reinvestiti, per ingrandire e impreziosire la casa. Abbiamo costruito tutto ciò che c'è oggi in tanti, tanti anni di lavoro, a piccoli passi. Ricordo ancora mia nonna che se ne andava a vendere con un grande cestone in testa. Dentro aveva frutta e verdura, patate, pancetta, e in mano portava i contenitori per il latte. Era venderigola e mlekarica, una gran lavoratrice».
La sorella di Jozko ricorda che, quando era bambina, era tutto molto diverso. In osmiza venivano in pochi, soprattutto persone dei paesi vicini. Erano curiosi di assaggiare i prodotti degli altri e, anche per amicizia fra produttori, si contraccambiavano visitandosi a vicenda nei periodi di apertura. «C'era un grande senso di appartenenza. Tutti avevano altri lavori ma quando finivamo venivano qua. E non andavano più a casa!» conclude ridendo. Pochi erano quelli che arrivavano da Trieste: «Venivano col bus solo alcuni pensionati – dice Ljuba – e ogni anno ce n'era qualcuno in meno». Il padre era fisarmonicista e l'osmiza «era un luogo pittoresco, di grande folclore. Si facevano anche delle gran cantate – ricorda – un po' com'è successo di recente con Pilat, che ci viene spesso a trovare».
Oltre che da Ljuba, Noris è supportata nell'attività dal grande contributo del padre in vigna e dal cognato, memoria storica dell'azienda. Gestisce con passione la cantina appartenuta a suo marito, divertendosi a sperimentare delle novità. Fra queste, un nuovo bled in arrivo, che affiancherà la produzione potenziata di Terano riserva, la linea classica in purezza di Terrano, Malvasia e Vitovska (disponibile anche nella versione “vivacizzata” da una fermentazione in autoclave) e degli uvaggi sfusi. «Il vino ha un animo suo. Non viene mai come vorresti tu, non è matematica - dice sorridendo - ma è proprio questo il bello». L'osmiza Colja è aperta a marzo, ad agosto e tra fine ottobre e inizio novembre. Chiude a gennaio e febbraio. Tutti gli altri weekend dell'anno la struttura opera come agriturismo, offrendo anche piatti caldi, dalla jota agli gnocchi di pane, dal cotechino allo stinco di maiale. «Quando il limite di apertura è stato abbassato a 60 giorni – spiega Noris - non ci bastavano più. Siamo sempre noi però, i prezzi e il luogo sono gli stessi. Cambia l'impegno, anche a livello normativo. In osmiza, in ogni caso, viene molta più gente!». —
C.F.
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