Verso Go!2025, Zoff racconta il confine: “Ai miei tempi era un muro invalicabile, ora è la grande occasione per svelare queste terre”
I ricordi dell’icona del calcio italiano. «Se penso alle frontiere, mi viene in mente quella con la Jugoslavia. Qui si vivevano situazioni abbastanza severe»
Per una vita, intesa come percorso individuale ma verrebbe da dire anche come momento collettivo, un’epoca per una nazione intera, è stato ultimo e spesso insuperabile baluardo a difesa di una linea bianca, quella della porta. Zoff, Dino Zoff. Basta il nome, semplicemente un’icona.
Una linea diversa eppure non dissimile da quella di gesso bianco che divise il “di qua” dal “di là” del confine tra Italia e Jugoslavia prima, Italia e Slovenia poi, in un tempo che sembra lontanissimo oggi, alla vigilia di Go!2025.
Un nuovo pezzo di storia per una terra che Dino Zoff ha sempre portato nel cuore anche dopo che il pallone e la leggenda lo hanno condotto altrove, in giro per l’Italia e il mondo.
Zoff, gli echi di Go!2025 si sentono anche lontano dall’Isonzo?
«Beh, decisamente sì, se ne parla eccome, e posso dire di sentirlo con piacere e con orgoglio».
Una vittoria per questo territorio, secondo lei che di successi se ne intende?
«Direi una grande occasione. Un’occasione per una terra, il Friuli Venezia Giulia ma in questo caso anche la vicina Slovenia, che magari non è ancora così conosciuta ai più, e che talvolta è stata un po’ trascurata».
Ha già in programma un passaggio a Gorizia in occasione di Go! 2025?
«Non ho programmato qualcosa di specifico, ma senz’altro verrò. Di tanto in tanto torno volentieri nella mia Mariano e anche a Gorizia, e la Capitale europea della cultura sarà un motivo in più per farlo».
Magari in occasione di qualche grande evento, anche sportivo…
«Se parliamo di calcio, sono consapevole che non è facile riuscire ad organizzare qualcosa, magari ospitando la nazionale che è sempre un simbolo straordinario. Ma so che arriverà nuovamente il Giro d’Italia, e sarà uno spettacolo».
La Capitale europea della cultura racconta di un confine che non c’è più. Quali sono i suoi ricordi del confine, invece?
«Mi viene in mente un confine vero, quello con la Jugoslavia. Negli anni della mia infanzia in queste zone si vivevano situazioni abbastanza severe, e Gorizia, dove avevo parenti e amicizie, la frequentavo spesso. A quei tempi, però, oltrepassare il confine era cosa rara».
Per lei parlare di Jugoslavia significa dire anche e soprattutto di un successo indimenticabile…
«Sì, a Roma il titolo di campione d’Europa con l’Italia nel 1968, quello della famosa finale ripetuta. Che squadra, quella Jugoslavia, ai tempi era una delle più forti a livello continentale e mondiale. Aveva tutto: fantasia, tecnica, forza».
Un giocatore jugoslavo che la impressionava?
«Senz’altro Dragan Džajič, ala sinistra dalla qualità straordinaria».
Nella sua carriera di confini ne ha attraversati parecchi. Ha un ricordo in particolare?
«Vero, capitava in occasione delle partite internazionali. E allora il confine per eccellenza era forse quello tra Germania est e Germania ovest. Faceva un certo effetto, anche se all’organizzazione e a tutti gli aspetti burocratici pensavano la società o la federazione, e noi giocatori ce ne accorgevamo meno».
E nello sport, invece, cos’è il confine?
«Per prima cosa penso alle regole. Un qualcosa da rispettare, ciò che rende leale un confronto. E quindi di conseguenza anche il rispetto dell’avversario».
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