La chef Klugmann e il gusto senza frontiere: «La diversità di culture lo rende speciale»
«Go!2025 dovrà celebrare questa nostra unicità». L’auspicio di chef Klugmann, attiva Vencò, a un passo dal vecchio confine tra Italia e Slovena e ambasciatrice del gusto senza frontiere da poco insignita dei cinque Cappelli della Guida de L’Espresso
Da quando ha aperto “L’Argine a Vencò”, il ristorante da una stella Michelin e, adesso, pure da cinque Cappelli della Guida ai 1000 ristoranti d’Italia de L’Espresso, Antonia Klugmann, ambasciatrice del gusto senza confini, ha scritto la parola “Territorio” nel suo menù.
«È un concetto molto personale, è la relazione tra me, il luogo fisico in cui opero e lo spazio intimo che ha a che fare con i ricordi, con quello che mi circonda, con ciò che mi accade», spiega la chef nata a Trieste, al lavoro dal 2014, tra cucina, orti e frutteti, a un passo da un valico di frontiera tra Italia e Slovenia.
Una vita passata a mescolare esperienze provenienti da parti diverse del mondo: il papà di origine ebraica e ferrarese, la mamma con genitori pugliesi e triestini.
Così attenta per questo, Klugmann, a Nova Gorica Gorizia Capitale europea della cultura 2025, un laboratorio di futuro per l’Europa, con il paradosso, però, dei controlli alla frontiera, reintrodotti dall’ottobre 2023 per effetto della delicata situazione internazionale.
“Territorio: vita in movimento”. È il percorso che lei porta a tavola. Come lo riassumiamo?
«È l’espressione di un menù sempre attuale, che segue la stagione, che riflette il mio ascolto del territorio e del paesaggio, ma anche, inevitabilmente, la mia storia. Da triestina vivo da quando sono nata la diversità delle culture. A scuola ero convinta che tutti i cognomi avessero la consonante finale. La “c” di sloveni, serbi, croati, la mia “n”».
Klugmann?
«Cognome di origine ebraica. A inizio Novecento, il bisnonno Leone, che voleva fare il commerciante, si trasferì da Leopoli a Zurigo e dopo qualche anno a Trieste. Quando sono iniziate le persecuzioni della Seconda guerra mondiale, il nonno paterno Giuseppe si nascose prima ad Assisi e poi a Perugia, dove ha conosciuta Marisa, la nonna ferrarese».
Un incrocio di territori e sapori.
«La parte mitteleuropea con i krapfen, le rape rosse, il prosciutto in crosta, i crauti, gli gnocchi di pane in brodo. E la parte emiliana e umbra con le lasagne e il ragù. Ma c’è anche il versante materno: nonna Giuseppina di Muggia e nonno Antonio di Molfetta, che è stato il cuoco, molto bravo, della famiglia: pesce crudo, tiella di mare alla pugliese, pasta al forno, le polpette come si fanno al Sud».
Che cos’è una cucina di confine?
«È una cucina aperta. Nel mio caso ha a che fare soprattutto con la meraviglia di Trieste, che mi ha insegnato a mettere assieme questo misto di tradizioni per cercare di creare qualcosa di unico. Nella mia proposta, che pure non si occupa di rivisitazione della tradizione, c’è una grande influenza della città.
Qual è la differenza di Trieste?
«Nella cucina triestina quasi non si riconosce più l’origine di alcune cose, ma si intuisce la complessità di sei secoli di stratificazioni».
Go!2025. Come vive l’attesa?
«Si dice che la comunicazione debba essere semplice, ma non è agevole raccontare le vicende straordinarie di questo territorio. Spero che Go!2025 si traduca nella celebrazione dell’unicità che ci caratterizza. E che venga raccontato nel modo più comprensibile possibile per un gran numero di persone».
Che effetto le fanno, però, i controlli ai valichi?
«A Vencò sono purtroppo qualcosa di normale. Nonostante l’abitudine, fa comunque molta impressione vedere la polizia sempre lì. Ma, finché ci saranno così ampie differenze tra ricchi e poveri, tra chi vive in pace e chi in guerra, l’immigrazione ci sarà. La mia storia famigliare è una storia di immigrazione dall’Est Europa e dal Sud Italia. Ho sempre guardato a questo passato complesso come una grande fonte di ricchezza».
Ed è un’immigrazione che impone misure di sicurezza?
«Il dibattito politico non mi compete. Dal mio punto di vista, il confine è un prodotto dell’uomo. Ma il tema della giustizia globale non può essere ridotto a un controllo di frontiera. Chi fugge da una guerra deve essere aiutato. Sempre».
Gorizia è un territorio che ha storia e tradizione, ma in ritardo quanto a dinamismo imprenditoriale e offerta di ospitalità. Che occasione è quella del prossimo anno?
«Andrà appunto valorizzata la nostra peculiarità. Ed evitato ogni rischio di provincialismo. Non è una questione di geografia, ma di atteggiamento. Lavoro in un piccolo centro, ma mi sento connessa con il mondo in modo attuale, veloce. È come si muove la testa che fa la differenza».
Così veloce che si ritrova con cinque cappelli come solo altri sette ristoranti in Italia, in compagnia di Bottura, Alajmo, Cracco. Com’è andata?
«Una sorpresa assoluta. Mi hanno invitata alla presentazione della guida de L’Espresso senza dirmi nulla. Quando mi hanno chiamato sul palco, mi sono commossa fino alle lacrime. Poi sono stata un’ora e mezza senza dire una parola. Provavo un senza di inadeguatezza».
Qualcuno ha provato a convincerla del contrario?
«Andrea Grignaffini e Alberto Cauzzi, il curatore e il vice curatore della Guida, mi hanno spiegato che è stata una scelta molto riflettuta. E allora, un po’, ci crediamo». —
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