«Regeni non era un agente segreto. Nei Servizi nessuno lo conosceva»
L’ex capo dell’Aise: «Sondai anche l’MI6 inglese, mi dissero che non era una loro risorsa»
I servizi segreti egiziani già in quel 3 febbraio del 2016, giorno nel quale fu trovato il cadavere ai latidi una strada, erano a conoscenza delle ferite che erano state inferte sul corpo di Giulio Regeni. Lesioni che sarebbe stato accertate ufficialmente soltanto dieci giorni più tardi, dall’autopsia effettuata in Italia.
È questa la rivelazione fatta dall’ex capo dell’Aise, l’Agenzia dei servizi segreti che si occupa di estero, Alberto Manenti, che all’epoca dell’omicidio del ricercatore italiano – originario di Fiumicello e già studente del liceo Petrarca di Trieste – era a capo dell’agenzia, nel corso della sua audizione nel processo in corso a Roma a carico di quattro 007 accusati di averlo sequestrato e torturato.
Manenti ha reso noto che la sera del 3 febbraio ebbe la notizia del ritrovamento del corpo di Giulio. «Mi trovavo in albergo al Cairo – ha detto il testimone rispondendo alle domande del procuratore capo Francesco Lo Voi –. Il nostro capocentro al Cairo entrò nella stanza e mi disse che era stato trovato il corpo di Giulio. Chiamai immediatamente il mio omologo del Gis, il servizio di intelligence egiziano, il quale mi disse che avrebbe fatto delle verifiche sul ritrovamento: mi chiamò dopo circa mezz’ora. Mi confermò che il corpo era di Giulio e quando gli chiesi le cause della morte mi disse una frase che mi lasciò. .. mi disse “ci sono traumi, segni alla base del cranio”. Tra me e me pensai ad un colpo ricevuto da un corpo contundente. Lui – ha aggiunto – parlava di segni esterni».
Nel corso dell’audizione l’ex capo del servizio di sicurezza esterna ha ribadito il fatto che Regeni non era uno 007. «Giulio non era un agente dei servizi segreti italiani – ha spiegato infatti ancora Manenti –. Nella struttura non lo conosceva nessuno». Non solo: «Su mandato ho sondato anche i servizi inglesi», ovvero «l’MI6: chiesi se era una loro risorsa e mi dissero che non lo era, io penso sia vero», ha aggiunto il testimone.
Manenti ha ricostruito poi anche le fasi precedenti alla scoperta del corpo del ricercatore italiano, scomparso la sera poco dopo essere uscito di casa al Cairo, e alle enormi difficoltà fin dall’inizio della vicenda riscontrate con le autorità del Cairo. «Ci siamo trovati di fronte ad un muro di gomma da parte degli egiziani», ha sostanzialmente detto il testimone aggiungendo che nei giorni successivi alla scomparsa di Giulio, in base anche ad una serie di elementi raccolti, la «situazione portava ad un fermo non ufficiale, una pratica spesso usata in Egitto sia per i cittadini stranieri ma soprattutto per i connazionali».
Nel corso dell’udienza stessa ieri è stato ascoltato anche l’attuale capo dell’Aise, Giovanni Caravelli, che all’epoca dei fatti era il numero due dell’agenzia. Il 27 gennaio di otto anni fa Caravelli andò al Cairo per stabilire contatti con gli apparati. «Contattai il mio omologo del Gis al quale dissi della scomparsa di Giulio, lui non sapeva nulla ma mi assicurò che si sarebbe attivato. Poi il 2 febbraio, quando ancora non c’erano notizie sulla sorte del nostro connazionale – ha affermato in aula – mi disse di avere attivato la National Security che a sua volta aveva attivato un team ad hoc sulla scomparsa».
La legale della famiglia di Regeni, l’avvocata Alessandra Ballerini, ha affermato che nell’udienza «sono stati chiariti diversi punti: l’ostruzionismo egiziano, il muro di gomma che ha reso evidente fin dal 28 gennaio 2016 che Giulio era nelle mani degli apparati e non si trattava di una sparizione volontaria. Una convinzione – ha aggiunto Ballerini – per i servizi segreti anche degli altri Stati». —
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