Omicidio Giulio Regeni: a processo i quattro 007 egiziani
ROMA Vanno a processo i quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, torturato ed ucciso Giulio Regeni tra il gennaio e il febbraio del 2016 al Cairo.
Al termine di un tortuoso iter giudiziario e dopo che la Consulta, nel settembre scorso, aveva fatto uscire il procedimento dal pantano in cui era finto a causa dell’assenza degli imputati, il gup di Roma ha disposto il giudizio fissando l’avvio del processo al 20 febbraio 2024 davanti alla prima sezione della Corte d’Assise.
Nel processo si costituirà parte civile anche la presidenza del Consiglio dei ministri che ha sollecitato, in caso di condanna degli imputati, un risarcimento di 2 milioni di euro. «Ringraziamo tutti, oggi è una bella giornata», si è limitata a dire Paola Deffendi, la madre di Giulio lasciando visibilmente commossa la cittadella giudiziaria della capitale assieme al marito Claudio.
Dal canto suo la Procura incassa un secondo rinvio a giudizio dopo quello poi «naufragato» sul nodo legato all'assenza del generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif. «L’assenza degli imputati non ridurrà il processo a un simulacro – ha sostanzialmente detto in aula il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco –. Poter ricostruire pubblicamente in un dibattimento penale i fatti e le singole responsabilità corrisponde a un obbligo costituzionale e sovranazionale. Un obbligo che la Procura di Roma con orgoglio ha sin dall’inizio delle indagini cercato di adempiere con piena convinzione».
La decisione della Consulta ha, quindi, impresso una svolta al procedimento dichiarando illegittimo l’articolo 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice proceda in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest'ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo.
Una decisione che interviene dichiarando non legittimo l’articolo nella parte in cui non prevede che il processo possa andare avanti per i delitti di tortura definiti dall’articolo 1, comma 1, della Convenzione di New York e cioè commesso da funzionari pubblici oppure da chi comunque agisce a titolo ufficiale, e deve esserci un atteggiamento ostruzionistico da parte dello Stato di appartenenza degli imputati che renda impossibile provare che questi siano a conoscenza della pendenza del procedimento a loro carico.
In base a quanto stabilito dalla Consulta è, quindi, sufficiente che gli imputati, così come già accertato, siano a conoscenza dell’«esistenza» del procedimento. In questo modo è stato superato l’ostruzionismo messo in atto dalle autorità egiziane.
Nell’atto di costituzione di parte civile, l’avvocatura dello Stato scrive che siamo in presenza di «un orrendo crimine» che «ha colpito profondamente la comunità nazionale, per le incomprensibili motivazioni e per le crudeli modalità di esecuzione». Nel documento si afferma che «gli Stati e i rispettivi Governi sono titolari del diritto-dovere di tutela della vita, dell’integrità psico-fisica, della libertà dei propri cittadini, e conseguentemente, ogni Stato e ogni Governo rappresenta a tal fine l’interesse a tutelare la propria collettività. Il rispetto dei diritti fondamentali trova pieno riconoscimento, del resto, sin dal 1948 con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani».
Insomma «qualsiasi azione di violenza fondata sull’appartenenza politica e/o religiosa o culturale o di qualsiasi altra natura, che comporta o potrebbe comportare per chi ne è bersaglio danni o sofferenze fisiche, psicologiche, costituisce un attacco ai diritti della persona umana».
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