Depistaggi sul processo Regeni, la rivelazione in aula: «Uno degli 007 imputati partecipò alle indagini»

Fu fotografato nel sopralluogo sul posto del ritrovamento del corpo di Giulio. È emerso dalle testimonianze di Sco e Ros alla sesta udienza del procedimento

Valeria Pace
Uno degli 007 imputati nel processo a Roma nel corso del sopralluogo effettuato il 10 febbraio del 2016 sul luogo dove il 3 febbraio 2016 venne trovato il corpo di Giulio Regeni. ANSA
Uno degli 007 imputati nel processo a Roma nel corso del sopralluogo effettuato il 10 febbraio del 2016 sul luogo dove il 3 febbraio 2016 venne trovato il corpo di Giulio Regeni. ANSA

Depistaggi, menzogne e totale mancanza di collaborazione da parte dell’Egitto. E peggio ancora, uno dei quattro 007 del Paese nordafricano responsabili, per la Procura di Roma, di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni era presente al sopralluogo effettuato congiuntamente dai team investigativi italiani ed egiziani il 10 febbraio 2016, solo qualche giorno dopo la sua morte, che la Procura colloca tra il 31 gennaio e il 2 febbraio.

Il luogo dove il 3 febbraio 2016 venne trovato il corpo di Giulio Regeni. ANSA
Il luogo dove il 3 febbraio 2016 venne trovato il corpo di Giulio Regeni. ANSA

Questo è quanto è emerso nella sesta udienza del processo Regeni che si è celebrata ieri davanti alla Corte d’Assise di Roma. Ascoltati in aula come testi gli investigatori del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei Carabinieri e del Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia di Stato. Nel corso dell’udienza davanti alla Corte d’Assise della Capitale sono state proiettate le foto che mostrano che l’ufficiale Uhsam Helm era presente al sopralluogo sulla strada che collega Il Cairo con Alessandria. Secondo i testi l’imputato ha partecipato anche a quasi tutti gli incontri dei team investigativi nel corso delle indagini.

L’udienza

A dare conto in aula dei rapporti con gli investigatori egiziani il direttore dello Sco, Vincenzo Nicolì. «All’inizio ci fu una apparente collaborazione, ci consentirono di assistere alle assunzioni di testimonianze ma noi cercavamo riscontri oggettivi. Fin da subito – ha precisato in aula – le autorità egiziane furono informate che ciò che era emerso dall’autopsia svolta in Italia non era compatibile con le loro ipotesi investigative». Tra le quali, sono state elencate, «l’incidente stradale», «il coinvolgimento in un traffico di opere d’arte rubate» e «altre che riguardavano la sua sfera sessuale, poi quella di uno scontro fisico con una persona davanti all’ambasciata». Tutte «non erano però assolutamente riscontrate». La svolta, ha aggiunto Nicolì, arrivò «il 24 marzo 2016» proprio quando «decidiamo di far rientrare il team investigativo»: «Ho sentito la notizia che gli egiziani sostenevano di aver trovato gli assassini di Regeni e allora li ho chiamati per dirgli di non partire e di rimanere lì». Nicolì poi ha ricordato l’incontro in cui sono precipitati i rapporti con gli egiziani nell’aprile 2016, dopo il quale «ci fu il ritiro dell’ambasciatore da parte dell’Italia»: «La parte italiana ha dato conto delle richieste fatte dal nostro Paese rimaste inevase, soprattutto sui dati tecnici. Dopo l’intervento del professor Fineschi che aveva eseguito l’autopsia, il clima divenne più rigido».

Ad approfondire le menzogne relative agli assassini di Giulio è stato il funzionario dello Sco, Alessandro Gallo. In aula sono state mostrate le foto dei corpi dei cinque uomini indicati dalla polizia egiziana come responsabili della morte di Regeni, uccisi a loro dire in un conflitto a fuoco, ipotesi «incompatibile» con «le immagini del pullmino e dei corpi», ha spiegato Gallo. «Dall’analisi sul telefono trovato addosso a uno dei 5 uomini è emerso che, a mezz’ora dalla scomparsa di Giulio, si trovava a 100 chilometri dal centro del Cairo», ha aggiunto. Per l’avvocata Alessandra Ballerini, legale dei genitori di Giulio, in udienza «è emersa l’assoluta mancata collaborazione egiziana, l’ostruzionismo e i depistaggi e anche il clima di intimidazione. Abbiamo capito le informalità con cui sentivano i testimoni, non venivano fatti verbali. Ai nostri investigatori di fatto era impedito di fare domande dirette e anche chiedere agli egiziani di far domande».

Il processo

È entrato nel vivo il 18 marzo scorso il processo a carico di quattro uomini appartenenti alla National security egiziana. Processo che ha fatto fatica a prendere il via in quanto gli atti non sono stati mai notificati agli imputati dalle autorità egiziane. È dunque servito l’intervento della Consulta lo scorso settembre per farlo partire. I genitori di Giulio hanno «atteso otto anni questo momento», disse Ballerini il 20 febbraio, in occasione della prima udienza. Dal 25 gennaio 2016, quando scomparve nel nulla a soli 28 anni, Paola Deffendi e Claudio Regeni da Fiumicello si battono infatti per ottenere «verità e giustizia» su quanto accadde al figlio, allora dottorando all’Università di Cambridge e già studente al Collegio del Mondo Unito di Duino. Regeni si era recato al Cairo a settembre 2015 per il lavoro sul campo che doveva completare per la sua tesi.

Le verità emerse finora nel processo sono durissime: Giulio fu torturato per giorni con bastonate e bruciature e tenuto cosciente fino a quando fu ucciso. L’ambasciata italiana il giorno del suo sequestro aveva diffuso ai connazionali l’avvertimento di «evitare zone pericolose e assembramenti», ma Giulio non lo ricevette mai. Pochi giorni prima di sparire, il 16 gennaio – ha testimoniato una amica d’infanzia – il giovane si era detto «contento di poter tornare a Cambridge». Per la Procura, come dichiarato di recente dal procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco, una vera «ragnatela» fu intessuta attorno a lui dagli imputati, «erroneamente convinti» che fosse una spia inglese. Veniva spiato da persone che credeva amiche, era pedinato, subiva perquisizioni in casa, e a sua insaputa era stato acquisito il suo passaporto.

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