L’onda di destra punta su Strasburgo. Ma le divisioni frenano la rimonta
Se si vuole credere ai sondaggi, anche stavolta non ci sarà una maggioranza sovranista al Parlamento europeo. Il fronte è comunque in crescita: le previsioni dicono che un terzo dei voti dovrebbe andare alla destra del centro
Un presidente a destra delle destre? È stato breve, ma è già successo. Il 25 luglio 1989 sul podio più alto del Parlamento europeo apparve per una manciata di minuti Claude Autant-Lara, eletto col Fronte Nazionale alla vigilia del suo 88° compleanno.
Dopo aver diretto fuoriclasse come Brigitte Bardot e Jean Gabin, l’anziano regista francese aprì la sessione inaugurale nell’assemblea di Strasburgo in quanto decano fra i deputati.
Fece un discorso nazionalista imbottito di razzismo, senza mancare l’occasione per condannare la Cee “lobotomizzatrice”, prendersela contro l’America, la Coca-Cola e “l’uso perverso della lingua inglese”, stigmatizzare le minacce africana e islamica contro le quali implorava “la fine della mescolanza delle razze”. Le forze politiche appassionate dei diritti abbandonarono l’aula e solo Jean-Marie Le Pen restò al posto visibilmente soddisfatto. Pochi minuti più tardi, veniva votato alla presidenza il giovane socialista spagnolo Enrique Baron Crespo. E l’Europa poteva riprendere la strada indicata dai padri fondatori.
La prima risposta alla domanda “può succedere di nuovo?” è che il regolamento è stato cambiato per evitare sorprese. La seconda è che alle Europee, dove il voto è più libero in assenza di implicazioni dirette locali, tutto è possibile e l’elettorato è parecchio volubile: lo dimostrano i primi segnali olandesi e la frenata dello xenofobo Wilders, trionfatore alle politiche appena lo scorso novembre. Se però si vuole credere ai sondaggi, si può immaginare che anche questa volta a Strasburgo non ci sarà un presidente sovranista. Ciò non toglie che le intenzioni di voto prefigurano il Parlamento più a destra della storia della Comunità diventata Unione. Una destra più democratica d’un tempo – sebbene non priva di derive inquietanti – che spaventa le forze tradizionali più per i numeri accumulati che per la capacità di essere compatta.
Gli occhi sono puntati su di loro, sul variegato e rumoroso popolo sovranista. Sognano una “Europa delle Nazioni”, toccano il cuore di chi non crede nell’avvenire, vedono i migranti come il fumo negli occhi, ma sono divisi sui dossier più roventi. Un esempio? L’esigenza naturale dei baltici è un maggiore sostegno all’Ucraina, mentre la destra austriaca gioca contro la Nato. Gli ultraconservatori olandesi e finlandesi sono per istinto frugali, i sovranisti italiani vorrebbero che il debito nazionale non fosse considerato un problema. Ad unirli è la formula dell’Armageddon che giurano di vedere arrivare e il proporsi come unica alternativa. Così come andiamo, avverte il capofila del Fronte Nazionale lepeniano (FN) Jordan Bardella, “Francia e Ue rischiano di sparire”. Il suo antidoto è la “sovranità”. Qui si crea un’armonia a cui si unirebbe pure Autant-Lara se potesse celebrare il 123° compleanno.
Una fetta rilevante degli elettori chiede proprio questo. Sono persuasi che riprendere le redini della carrozza sospenderà ogni male, così circa un voto su tre andrà alla destra del centro. L’esito atteso è che dopo il gruppo Popolare (Ppe) e i Socialisti e Democratici (S&D) – che paiono orientati a ottenere più o meno gli stessi seggi di cinque anni fa –, la terza forza sarà l’Ecr dei Conservatori e riformisti, famiglia presieduta da Giorgia Meloni nella quale dovrebbero confluire gli esponenti della destra-destra con qualche eccezione. Lo spagnolo Jorge Buxadé, capo di Vox, dichiara apertamente di volere anche l’ungherese Orbàn con Fidesz: probabile. Gli altri arrembanti dell’Ue, i più oltranzisti, confluiranno nell’insieme parlamentare Identità e Diritti dove domina il Fronte Nazionale, con la Lega che cerca di restare in scia, mentre Afd, la troppo estremista e nostalgica Alternativa per la Germania, è stata messa fuori squadra. Per ora.
Lunedì si faranno i conti. Marine Le Pen vuole fare il Supergruppo. “È il tempo di unirci”, ripete con ogni determinazione. Vorrebbe convincere Meloni e i conservatori a unirsi, a formare una “force de frappe” che potrebbe arrivare a 160 deputati e magari di più. Il sogno della leader di Neuilly-sur-Seine (e di Salvini) è di coinvolgere il Ppe o magari solo spacchettare una parte dei 170 seggi che i sondaggi attribuiscono alla balena bianca. Vorrebbe una nuova maggioranza. Ma i Popolari dicono “mai con le destre” e Antonio Tajani, leader della famiglia in Italia, è sempre chiaro nel precisare i distinguo, a partire dal fatto che il FN vuole uscire dalla Nato e chiudere le frontiere, mentre il Ppe è con l’Alleanza atlantica e la libera circolazione. Inoltre, la squadra scudocrociata ambisce ad avere la presidente della Commissione e, al punto in cui siamo, insiste su Ursula von der Leyen sulla quale c’è il veto delle forze radicali.
La realtà è che la disarmonia regna “sovrana” sotto il cielo a destra del vecchio centro. Il polacco Mateusz Morawiecki, leader del partito Diritto e Giustizia (Pis) un tempo dei fratelli Kaczyński, cova nel suo Dna una comprensibile paura della Russia e non potrebbe concepire nemmeno per un istante l’allentamento del legame in casa Nato. Orbàn, Le Pen e Salvini sono invece in linea col 22 per cento degli europei che pensa sarebbe meglio disarmare l’Alleanza. Difficile immaginare cosa accadrebbe alle difese nazionali senza l’ombrello atlantico, gli Stati dovrebbero trangugiare un cocktail di maggiori spese e minor protezione che non sarebbe automaticamente sinonimo di pace e sicurezza. Però i populisti hanno corso giocando sui timori giustificati dei cittadini, proponendo soluzioni lampo non sempre strutturate, ma tant’è: il “whatever it takes” di Mario Draghi alla Bce è diventato un “whatever you want” populista, tutto quello che serve contro tutto quello che volete. E il gioco è stato fatto.
Il caso italiano è uno dei più interessanti. Giorgia Meloni è con tutta probabilità la leader più in sella. Danza con abilità fra le famiglie tradizionali classiche e i populisti curatori di mal di pancia. La sua maggioranza sta insieme per restare al governo, e nessuno sembra stupirsi più tanto che i tre partiti principali della coalizione appartengano a tre compagini politiche incompatibili in Europa. Gli analisti si chiedono se davvero si possa fare a Strasburgo quello che è successo a Roma. La domanda è giustificata e stimolante, ma per il momento il responso suggerisce un “no”. Davanti alle contraddizioni, non solo italiane, è lecito chiedersi se tutto questo finirà presto, se le esigenze concrete degli europei porteranno in scena un apparato dirigente più versato all’equilibrio e al benessere diffuso. La sentenza è probabilmente negativa, anche in questo caso.
La contabilità della vigilia, per quel che vale, dice comunque che non ci sarà una “onda nera” a Strasburgo. I numeri invitano a riflettere. Il vero dramma può essere l’astensionismo, ovvero il rifiuto della democrazia. Fra gli europei che usufruiranno del loro diritto di scegliere, circa un terzo andrà a destra e meno della metà di questi opterà per la componente più radicale. Questo vuol dire che oltre il 50 per cento di chi infilerà la scheda nell’urna, e circa un 70 per cento di chi ne avrebbe diritto, non condivide le soluzioni radicali. La chiave del futuro è coinvolgere chi si è estraniato, il progetto europeo che fa la forza con l’Unione, si rilancia così. Salvo colpi di scena, dovremo però attendere le elezioni del 2029.
Questa classe politica, indipendentemente dal colore, non è ancora nel complesso all’altezza dei tempi che viviamo, delle sfide che ci attendono e delle minacce che ci circondano.
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