Aciman e il senso del tempo a “Barcolana un mare di racconti”: la rassegna fino a sabato al Magazzino delle Idee di Trieste
Nella prima giornata anche Marij Čuk, Eleonora Vallone e Ginevra Lamberti
Si apre oggi, mercoledì 9 ottobre, la VI edizione del festival “Barcolana un mare di racconti”, diretto dal giornalista e scrittore Alessandro Mezzena Lona insieme a Nadia Dalle Vedove.
Per sei anni consecutivi la manifestazione, voluta da Mitja Gialuz presidente della Società Velica Barcola e Grignano, ha portato a Trieste grandi autori nazionali e internazionali. La rassegna – che proseguirà fino al 12 ottobre – si svolgerà nella sala del Magazzino delle idee (Corso Cavour, 2) a ritmo di quattro appuntamenti al giorno.
Il via quindi è previsto per oggi, alle 16.30, con “Trieste nello specchio della Storia”, ospite Marij Čuk che parlerà del suo nuovo romanzo “Foiba” (Mladika). Seguirà (ore 17.20) Eleonora Vallone con “Quante vite per una” (Castelvecchi) mentre Ginevra Lamberti sarà presente alle ore 18.10 con il suo ultimo “Il pozzo vale più del tempo” (Marsilio).
Grande attesa per André Aciman, conosciuto ai più per la versione filmica tratta dal suo romanzo “Chiamami col tuo nome”, edito da Guanda nel 2008 e portato al cinema nel 2017 da Luca Guadagnino.
Al festival barcolano Aciman presenterà la voluminosa autobiografia “Un’educazione sentimentale” (ore 19), sempre edito per Guanda. Nell’occasione sarà introdotto dalla scrittrice Federica Manzon – Premio Campiello 2024 – qui nelle vesti di direttore editoriale del marchio milanese.
Aciman ha già molti successi alle spalle. Ma quest’opera appunto non è un romanzo, bensì una biografia. L’arco di tempo è il periodo in cui l’autore, sedicenne, si trasferì da Alessandria a Roma per sfuggire alle persecuzioni degli ebrei del presidente Nasser. Nel 1969 si trasferirà con la famiglia a New York. Ma nell’“Educazione sentimentale”, l’obiettivo è puntato sulla capitale, in via Clelia, dove Aciman ha trascorso l’adolescenza. Come spesso accade nei suoi romanzi, il tempo è fondamentale, non a caso lo scrittore è un grande studioso di Proust.
C’è però una differenza importante. Se Proust tentava di recuperare e ricostruire il passato, Aciman guarda sempre a ciò che è trascorso in una prospettiva futura. Certo è una struttura chiara nei romanzi, ma anche quest’autobiografia non è esente da questo stilema. Così è che emerge l’originale idea di “improvvisato”, ovvero quanto la vita sia fatta di “improvvisazioni”. Soprattutto Aciman guarda alla possibilità di avere colto o meno quei momenti. In ballo insomma c’è l’esistenza, le nostre scelte e le loro conseguenze. Come se una vita non bastasse per viverla appieno. I protagonisti sfilano in una dimensione che è fatta di stati d’animo e abbandoni. Anzi, si potrebbe dire che l’abbandono è uno dei topoi di Aciman. L’abbandono di una patria, di una città, di una donna o di un uomo, sempre affrontati in una dilatazione lirica, mai retorica.
Così questa educazione ai sentimenti ci restituisce Amina e altre ragazze con cui l’autore ha provato le prime pulsioni, i primi coinvolgimenti. Ma attenzione, non si tratta mai di un coinvolgimento passionale e irrinunciabile. Nulla a che fare con i protagonisti dei suoi romanzi, lì dove l’amore ci pare unico e assoluto come tra Oliver ed Elio (“Chiamami col tuo nome”) o Raul e Margot (“L’ultima estate”).
Qui lo stesso autore si definisce (per voce di zia Flora) un “animale a sangue freddo”. Escluso Gianlorenzo – l’amico garzone della drogheria di via Clelia – con le donne della sua adolescenza non pare mai instaurarsi una vera comunicazione. Con Gianlorenzo sì. Ed è comunque vero, pur nell’esperienza di legami meno intensi, che Aciman riesce sempre a evocare una dimensione di struggimento. Ma appunto, forse poco c’entrano i rapporti sentimentali, quanto l’opportunità di immaginare quei legami nel futuro. Non solo i legami, ma anche le diverse prospettive di vita a Parigi (che sarebbe stato il primo obiettivo del giovane scrittore) piuttosto che a New York.
D’altra parte non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai state, scriveva Pessoa. E Aciman ne sa qualcosa a giudicare dalle sensazioni e dai paradossi di alcune punte della sua scrittura: «Stavamo bene dove non eravamo», dirà a un certo punto il protagonista, che ricorda un celebre verso di Giorgio Caproni: «Sono tornato là / dove non ero mai stato». Questo fa Aciman, torna al passato per recuperarlo in una dimensione di possibilità future, non realizzate. E perciò non vissute fino in fondo. E una cosa non ancora esaurita tende a mantenere la tensione alta, struggente, assoluta. Forse da qui procede l’intensità dei suoi libri, da ciò che avremmo potuto vivere e potuto vivere e non abbiamo scelto. —
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