Il golfo di Trieste impoverito dalla pesca fuori controllo: ecco quali sono le sei specie a rischio

L’allarme degli esperti dell’Ogs. Il peso medio dei sardoni si è già ridotto del 50%
Piero Tallandini

TRIESTE Nel nostro mare 6 specie su 11 tra quelle sotto osservazione sono considerate in stato critico, e altre 3 sono in una situazione tale da richiedere la massima attenzione. Solo 2 sono sfruttate in modo sostenibile. Inoltre, sardoni e sardine sono mediamente più piccoli, tanto che il loro peso individuale é diminuito fino al 50%. È lo scenario delineato da Simone Libralato ricercatore dell’Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale di Trieste. Diventa quindi indispensabile attuare una pesca meno intensiva e promuovere un consumo consapevole a tavola.

Scegliendo le specie preferibili in base alla stagione e riscoprendo pesci che negli ultimi anni sono finiti ingiustamente nel dimenticatoio. Suggerimenti preziosi, in questo senso, possono arrivare da una brochure realizzata proprio dall’Ogs che indica le stagioni preferenziali in cui viene catturato e venduto il pesce nel Golfo di Trieste e in Alto Adriatico.

Le specie a rischio

Secondo i dati più recenti forniti dalla Gfcm (Commissione generale pesca) della Fao le specie sovrasfruttate e in stato critico sono nasello, scampo, triglia, sardina, acciuga e cappasanta – spiega Libralato –. Le specie in possibile stato di sovrasfruttamento sono sogliola, coda di rospo e seppia. Se consideriamo le 11 specie monitorate, quelle sfruttate a livello sostenibile sono solo canocchia e murice. Poi, il peso medio individuale di sardoni e sardine dal ’95 a oggi è diminuito in media, del 20 e del 50 %. Un problema perché così si riduce la capacità di produrre uova.

Inoltre abbiamo sempre meno sgombri. Intanto la temperatura si sta alzando e sono arrivate, fortuitamente o meno, altre specie. Dalla vongola filippina al granchio blu, che rischia di soppiantare specie locali. Non sempre, però, questo è un problema: il pesce serra, che si trova ora anche nelle pescherie triestine, è una specie che ha carne pregiata, simile all’orata ed il cui consumo non comporta problemi di sostenibilità».

lo sfruttamento e le restrizioni

«Siamo in una situazione di sovrappesca – rimarca il ricercatore –, lo sfruttamento delle risorse ittiche è eccessivo rispetto alla loro capacità di rigenerarsi, che a sua volta cambia anche per altri fattori. Finora si è cercato di ridurre il quantitativo di ore e giorni di pesca, ma serve imporre anche limiti alla quantità del pescato e per acciughe e sardine si sta andando già in quella direzione. Speriamo di far capire che una pianificazione consentirebbe anche di pescare in modo più razionale e coordinato, senza effetti negativi per il mercato. Anzi. Certo che da noi si pone la questione della suddivisione delle quote non solo tra le flotte dei rispettivi porti, ma anche tra i diversi Paesi».

«Ci sono comunque limitazioni in atto anche nel Golfo di Trieste per lo strascico, interdetto al di sotto delle tre miglia – continua Libralato –, per la pesca con draghe idrauliche, strumento usato in particolare per vongole e fasolari a Grado e Marano. Poi c’è la regolamentazione in atto sul numero di barche che possono pescare. Tornando alle questioni transfrontaliere, va sottolineato l’accordo tra Italia e Croazia che nel 2017 ha consentito la regolamentazione della pesca nell’area della fossa di Pomo (centro Adriatico), habitat perfetto per scampi e nasello, che infatti si sta ripopolando».

LA GUIDA

Per evitare il peggioramento dello stato di salute del mare è fondamentale sensibilizzare il consumatore. «Dobbiamo valorizzare le specie che, pur nostrane, sostenibili e di stagione, sono meno consumate – ribadisce Libralato –. Nei nostri mercati ittici sono commercializzate oltre cento specie, ma il consumatore tende a mangiare sempre le stesse: prevalentemente branzino, orata e salmone». Nella brochure dell’Ogs si spiega, appunto, che ci sono stagioni ideali per consumare determinati pesci ed altre in cui è preferibile evitare l’acquisto in quanto la pesca può risultare poco sostenibile per l’ambiente. Poco sostenibile perché effettuata con attrezzi non selettivi o prendendo individui sotto la taglia minima o ancora perché la disponibilità in natura di quella specie è molto limitata e la sua reperibilità comporta costi energetici e ambientali elevati. Nella tabella ne riportiamo alcuni esempi.

DA RISCOPRIRE e da evitare

«Il suro o sugarello è una specie di altissimo valore culinario, eppure da noi la sua commercializzazione è molto ridotta – osserva il ricercatore – . La gente non conosce più questo pesce e non sa come cucinarlo, ma è buonissimo, con un gusto paragonabile all’orata. Altro pesce trascurato, ma ottimo, è l’aguglia, simile a una lunga acciuga. Non sono difficili da preparare in cucina e, dal punto di vista della pesca, sono sostenibili. Lo stesso vale per i nostri mitili, prodotto di una attività di allevamento molto sostenibile e che possiamo consumare tutto l’anno e le canocchie». E le specie che a volte è lecito accantonare per rispettare di più il mare? «Sono i pesci pescati con attrezzi impattanti, con uno sfruttamento eccessivo, non abbondanti in natura o molto grandi, ad esempio tonno e pesce spada che ci mettono anni a crescere. Poi il palombo, specie a rischio. Anche le cappesante sono sconsigliabili: sono state pescate troppo».

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