Riparte il cantiere della riforma dei porti

Il governo cerca una mediazione tra la necessità di un coordinamento nazionale e le esigenze di autonomia delle Authority
Alberto Quarati

GENOVA Con il cambio di governo, è tornato sui tavoli della politica il dossier della riforma dei porti: un intervento sostenuto soprattutto dalla Lega, che dovrà essere armonizzato col più vasto obiettivo della riforma delle Autonomie.

Del resto, l’ultimo intervento di sostanza sulla legge dei porti (la legge 84/94) risale al 2016 con il governo Renzi: lì l’obiettivo iniziale era l’accorpamento delle allora 24 Autorità portuali, diventate 16 e poi salite a 17. A sette anni di distanza, e non del tutto superati i maldipancia delle comunità portuali accorpate, la legge ha prodotto qualche matrimonio felice (è il caso della coppia La Spezia-Marina di Carrara) ma il più delle volte delle fusioni a freddo, con gli enti in difficoltà nell’andare a pianificare e sviluppare il “sistema” logistico-portuale intorno ai porti, che era uno degli obiettivi di legge.

La riforma targata Lega - e che lo stesso viceministro Edoardo Rixi ha più volte detto di voler pianificare con cura - dovrà avere l’accordo dell’azionista pesante del governo, Fratelli d’Italia, e dovrà equilibrare l’autonomia dei porti con le dovute necessità del governo di pianificare e coordinare l’attività delle banchine del Paese.

Sin qui le idee emerse vertono su un grado di maggiore autonomia per i porti maggiori, magari attraverso delle Società per azioni interamente partecipate dallo Stato e dagli enti locali, su modello dei grandi scali del Nord Europa; e nel contempo l’istituzione di una società, con tutta probabilità partecipata direttamente dal ministero dei Trasporti su modello della Puertos del Estado spagnola, che garantisca un ruolo di indirizzo strategico per i porti (dopo che sostanzialmente il tavolo di coordinamento nato con la riforma del 2016 non ha sortito grandi effetti in questo senso) e la funzione imparziale della pubblica amministrazione sui capitoli più critici, ad esempio il rilascio delle concessioni oltre i 10 anni.

Proprio il tema delle concessioni è stato al centro degli interventi normativi del governo in materia portuale, con il varo del Regolamento sulle concessioni, e le relative linee guida, licenziate poche settimane fa. Queste ultime, tra l’altro, fortemente influenzate dall’intervento del ministero per le Politiche europee, affidano un ruolo di primo piano dall’Autorità di Regolazione dei trasporti (Art) proprio sul tema del rilascio delle concessioni e sui relativi piani finanziari, con una preponderanza rispetto a quest’ultimo aspetto (in luogo dei piani industriali) che ha già messo sul chi va là Assiterminal, l’associazione dei terminalisti italiani, pronta a presentare ricorso per una norma considerata poco attinente alle reali funzioni portuali.

Del resto, il compito affidato all’Art deriva dalla necessità di adempiere al molto più ampio insieme di riforme che il governo deve affrontare per ottenere i finanziamenti del Pnrr dalla Commissione europea. È probabile che proprio questo ruolo oggi affidato all’Authority un domani venga trasferito all’organismo centrale progettato dal ministero, anche se di fronte a una mossa di questo genere, il rischio è che si venga a creare un nuovo punto di frizione tra Mit e Art.

Da notare che sin qui tutti i discorsi legati alla riforma riguardano esclusivamente la governance, e i sindacati da tempo hanno avvertito che i cambiamenti negli equilibri di potere non potranno in alcun modo andare a intaccare l’organizzazione del lavoro sulle banchine.

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