Trieste, lungo i moli corre la Storia

Dall’Audace al Venezia gli approdi lungo le Rive raccontano le trasformazioni della città nel corso degli anni e rappresentano gli indici del suo destino protesi in mare
Un'immagine storica del molo Audace
Un'immagine storica del molo Audace

TRIESTE Come le dita di una mano, i moli rappresentano il terminale più sensibile di Trieste che, grazie al mare e ai traffici commerciali dal Settecento, ha sperimentato uno sviluppo vorticoso e irripetuto. In successione essi si allungano dalle Rive e le connotano fin dai nomi. Nomi che sono mutati tante e tante volte dal ‘700 a metà ‘900, a seconda del mutare delle dominazioni e dei riferimenti culturali. Perché la toponomastica scrive la storia. Dal Canal Grande alla Sacchetta, dove oggi si passeggia tranquilli, una volta c’era il mare. In due secoli è stato imbonito.

Le saline interrate. Pali d’abete e poi di calcestruzzo hanno garantito una base sicura per la costruzione di sontuosi palazzi impiantati su fondali fangosi. E così la città allungata ai fianchi delle colline tese verso San Giusto ha potuto distendersi in piano. La trasformazione della città da borgo di pescatori e salinari in porto emporiale di successo, la cui ispirazione arriva dalle città olandesi seicentesche dotate di canali interni, è leggibile nella tessitura urbanistica del Borgo Teresiano e del Borgo Giuseppino. Sostando sul Canal Grande, uno degli scorci più amati del centro, ci si trova nella zona delle antiche saline. Infatti in quest’area c’era un molo, quello del sale, dove oggi c’è la Capitaneria di Porto, interrato sino al molo del macello detto Klutsch, nella zona dell’odierno piazzale della stazione ferroviaria Centrale. E se del molo del vino, riferito a quel Canal Piccolo che dal mare era la via d’acqua verso la Portizza per il commercio del vino e delle merci, oggi sopravvive solo nel nome di una via, qualche parola merita la storia dei ponti sul Canal Grande. Il Ponte Rosso fu costruito in legno nel 1756, appena ultimata la costruzione del canale. Il ponte fu rifatto e ampliato più volte e, nel 1832, costruito in ferro. Oggi si è persa la memoria del Ponte Verde, all'inizio del canale, all'imbocco dal mare, costruito in ferro nel 1858. Gli fu affiancato nel 1904 il Ponte Bianco o Ponte Nuovo, sul quale passava la ferrovia. All'inizio del canale, a ridosso del ponte, c’è uno squero per la messa a secco e la manutenzione delle piccole imbarcazioni. Il nome dei ponti si rifaceva al colore con cui erano dipinti in origine. Questa divagazione sul Canale e i suoi ponti si spiega con il suo essere parte del sistema portuale per eccellenza, una sorta di molo al negativo: non si protende in mare per dare approdo alle navi, ma la sua natura è di porto canale per dare riparo ai velieri consentendo lo scarico delle merci sulle banchine.

Ma il molo principe, simbolo della città, è il molo Audace, ultima denominazione di una storia che affonda le sue radici del XVIII secolo. Tutto iniziò nel 1740 quando nel porto affondò, vicino alla riva, l’asburgica nave San Carlo. Il relitto non venne rimosso perchè si decise di utilizzarlo come base per la costruzione di un nuovo molo, edificato tra il 1743 e il 1751. All’epoca il molo era più corto di come lo conosciamo oggi ed era collegato a terra tramite un piccolo ponte di legno. Venne più volte allungato fino a raggiungere gli attuali 246 metri. Al molo san Carlo attraccavano allora sia navi passeggeri che navi mercantili, con gran movimento di persone e di merci che ispirarono a Umberto Saba i versi de “Il molo”. Alla fine della prima guerra mondiale, il 3 novembre del 1918, la prima nave della Marina Italiana a entrare nel porto di Trieste e ad attraccare fu il cacciatorpediniere Audace. In ricordo di questo avvenimento venne cambiato nome, chiamandolo appunto molo Audace nel marzo del 1922. Non meno denso di storia il molo della Porporella (1872). “Il nome di porporella viene dato in tutta la vicina penisola a moli antichi rovinati – scrive Ettore Generini a fine ‘800 -. Un piccolo molo siffatto esisteva sino al 1798”. Diventò poi della Sanità (1909) per via di un piccolo edificio della Sanità, in seguito demolito, per giungere a noi dal 1923 come molo dei Bersaglieri a ricordo dello sbarco dei fanti piumati il 3 novembre 1918. Oggi è destinato all’attracco delle navi . A metà degli Anni 50, subito dopo il ritorno di Trieste all’Italia, da qui oltre 50mila triestini emigrarono nel mondo e soprattutto verso Austrialia e America.

Poco distante ad esso c’era la Pescheria, già Pescheria Grande, oggi Salone degli Incanti, edificata nel 1913. Non meraviglia che questo sia il Molo dei pescatori, costruito dal 1905 -1906 e dal 1914 ribatezzato Molo della Pescheria. Le fonti posizionano la pescheria nella zona della ‘spiaggia dei pescatori’ nei presi del Fontego del Sale, dove si trovava una porta muraria significativamente chiamata Porta Pescheria. E qui non a caso trova spazio l’Acquario marino, che venne realizzato nel 1933 adattando gli impianti nei locali di un lato della Pescheria Centrale, ovvero la torre dell’orologio. Per l’aspetto che rimanda ad un’architettura basilicale venne giocosamente soprannominato “Santa Maria del Guato”. Scendendo le Rive verso il Magazzino Vini, oggi Eataly, si incrocia il molo Giuseppino, naturale prolungamento della piazza Giuseppina. Il nome è un tributo all'Imperatore d'Austria Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, figlio dell'Imperatrice Maria Teresa d’Austria, che qui volle un nuovo borgo per sostenere l’espansione della città. A seguito del passaggio di Trieste all'Italia nel 1918 la piazza fu oggetto di un ripensamento. Dietro gli impulsi nazionalisti che volevano far dimenticare la presenza e il passato asburgico della città, il nome della piazza venne cambiato da Giuseppina a Venezia, e così il suo molo dal 1919.

L’incrocio successivo lungo la Sacchetta è con il molo Sartorio, costruito da Pietro Sartorio nel 1847 sui fondi di proprietà della famiglia e sul quale oggi ha sede lo Yacht Club Adriaco. Attraversando la Sacchetta la memoria corre al molo Borland o del Carbone. Una storia interessante. Nel 1840 l’inglese Iver Borland, a Trieste dal 1815, diventò proprietario della cosiddetta isola Borland tra l’attuale salita del Promontorio e Campo Marzio. Per le necessità commerciali si fece montare sul suo molo a Riva Grumula una gru in ferro, il primo mezzo meccanico allestito nel porto in città: con due soli uomini si poteva facilmente trasbordare sulla spiaggia i carichi più pesanti. Qui, superata la stazione Rogers si giunge al Faro della Lanterna, in cima al Molo Fratelli Bandiera, figli di un alto ufficiale della Marina Austriaca che si votarono alla causa del riscatto dell’Italia e che per questo sostituirono nella intitolazione il molo Teresiano o di Santa Teresa.

Le fondazioni del faro, progettato da Matteo Pertsch, poggiano su quello che una volta era lo Scoglio dello Zucco. All’entrata una targa ricorda che nei dintorni di questo luogo sono ambientate alcune poesie di Umberto Saba, tra cui Il faro, In riva al mare e Il pomeriggio. Un luogo poetico. Entrò in funzione l'11 febbraio 1833 e nel 1969 si spense, passando il testimone al Faro della Vittoria, dall’altro capo del Golfo. Un’altra storia che illumina la città. — (4 - Continua)

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