Il Comune di Monfalcone nega all’Aned la prima pietra d’inciampo in città

La richiesta per il prigioniero politico Natale Marchese, morto a Mauthausen. Il Comune: “Non era ebreo”. La replica del rabbino Meloni: “Non è un requisito esclusivo”

Tiziana Carpinelli
Una precedente cerimonia in ricordo dei deportati all’ingresso del camposanto di via 24 Maggio. Foto Bonaventura
Una precedente cerimonia in ricordo dei deportati all’ingresso del camposanto di via 24 Maggio. Foto Bonaventura

«Non era ebreo». Inoltre «esiste già un monumento» all’ingresso del camposanto di via 24 Maggio che commemora «l’alto tributo alle persecuzioni e deportazioni avvenute negli anni che hanno preceduto e accompagnato la Seconda guerra mondiale», dedicato agli «oltre 100 deportati nei campi di concentramento». E lì, ogni anno nella Giornata della Memoria, viene «ricordato il sacrificio subito da tutti i nostri concittadini» e dalle vittime dell’Olocausto.

Con questa spiegazione il vicesindaco reggente di Fratelli d’Italia Antonio Garritani ha respinto la richiesta di dedicare a Monfalcone la prima (in assoluto) pietra d’inciampo, rivolta a Natale Marchese, un invito formulato dall’Aned, l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti, Medaglia d’oro al merito civile.

Il primo rifiuto

«Non ci sono precedenti di diniego nella provincia di Gorizia dal 2015 circa», periodo di debutto delle pietre sul territorio, a oggi. È la stessa Aned a riferirlo. La vicepresidente nazionale Patrizia Del Col, sacilese, conferma: «Mai ci sono stati rifiuti in regione o, se ci sono stati, a nostra insaputa. Direi piuttosto che si registra il fenomeno opposto, di richiesta anche per persone che non presentano il profilo “regolare” e magari sono morte fucilate o sono tornate a casa dal lager». «Non mi sorprende – conclude – viste anche le notizie che arrivano da Monfalcone».

L’antefatto

L’antefatto, finora sconosciuto: la sezione di Ronchi, rappresentata dal presidente isontino Libero Tardivo, ai primi di novembre s’era fatta portavoce per iscritto dell’istanza, espressa dalla figlia di Marchese. Carmen, oggi 92enne.

Il papà, classe 1893, ufficiale dell’Esercito italiano, di fede socialista, «si adoperò molto – sottolinea l’Aned – per salvare dalla deportazione tanti disperati del nostro territorio». Marchesi, triangolo rosso, cioè prigioniero politico (quello viola indicava i testimoni di Geova, il verde i delinquenti comuni, la stella di David gli ebrei e via discorrendo) fu spedito al lager Mauthausen. Morì, il primo marzo del 1945, nel sottocampo – uno dei 49 – di Gusen, una realtà a sé per quantità di deportati e durezza nelle condizioni sia di costrizione che di lavoro. Aveva 51 anni.

La richiesta della figlia

La figlia ha chiesto ora la posa di una stolpersteine, il manufatto ideato dall’artista tedesco Gunter Demnig appunto per sedimentare nella memoria collettiva la tragedia dei campi di sterminio. Affinché resti scolpita nel cuore, la gente mediti «che questo è stato», per usare le parole di Primo Levi. Carmen Marchese ha indicato un «terreno prospiciente l’edificio» di via 4 Novembre dove il padre visse, al civico 16, per realizzare la «nicchia» nel suolo in cui calare il cubo di dieci centimetri per lato.

Il carteggio tra Aned e Comune

C’è stato un carteggio tra Aned e Comune. Di lunedì la terza e ultima lettera, in risposta al rifiuto, spedita dall’associazione. Qui Tardivo segnala all’ente che sono «centinaia le città in Italia ed Europa» che presentano monumenti a ricordo delle vittime della deportazione e tuttavia «queste presenze non hanno impedito alle amministrazioni il posizionamento tra le vie di molte pietre d’inciampo»: a Milano ce ne sono circa 200, a Roma 400 e in Italia 2.500.

Più modestamente a Ronchi «oltre una trentina e sono tutte dedicate a triangoli rossi, come Marchese, cioè prigionieri politici, al pari di moltissime altre municipalità del nord Italia», aggiunge a margine, «sorpreso» dalla risposta dell’amministrazione, che in tutta franchezza immaginava «positiva».

La funzione delle stolpersteine

Invece no. Eppure, sempre l’Aned nella lettera, le stolpersteine hanno una «funzione diversa rispetto a lapidi o monumenti»; inoltre «possono essere dedicate a tutti i morti nei campi di concentramento e non solo agli ebrei» né «possono essere considerate una “recente tradizione” di quella Comunità», così come spiegato dall’ente nella precedente missiva.

«Mi permetto di ricordare – sempre Tardivo – che la quasi totalità delle persone deportate da Monfalcone erano operai delle fabbriche del territorio o intellettuali», imprigionati «per le loro idee di libertà, cittadini che hanno “costruito” lo sviluppo della città e che, ritengo, meritino d’esser ricordati, sempre e con ogni forma». Inoltre «partendo da “una” proposta», si vuole «rappresentare l’inizio di un percorso di riconoscimento di tanti».

La replica del reggente Garritani

Garritani, dal suo canto, si chiede: «Perché a lui sì e agli altri 99, no?». Fermo restando che ovviamente «non c’è alcuna preclusione rispetto alla persona in sé», nell’intento di non far distinzioni tra «poveri morti».

«Ci rimettiamo all’uso delle pietre che si fa in tutte le altre parti d’Italia – ancora il reggente – che sappiamo avere come principale riferimento la popolazione ebrea sterminata dai nazisti nel numero di sei milioni». Dunque se l’erede di una vittima della Shoah nata e residente a quei tempi a Monfalcone venisse a chiedere una pietra d’inciampo per il parente la risposta sarebbe affermativa? «Se ne può parlare», conclude Garritani.

Il rabbino

Per il rabbino di Trieste Eliahu Alexander Meloni essere ebrei non è un requisito esclusivo delle pietre d’inciampo, bensì «l’aver subito deportazione ed essere stati testimoni diretti o indiretti del dramma della Shoah», tant’è che «due anni fa a Trieste ne sono state apposte due dedicate a rom: io stesso ho preso parte a quella cerimonia».

«È un diritto dei familiari formulare la richiesta e anche se c’è già un monumento nulla toglie alla posa di una pietra – termina –. Dire “non è un deportato ebreo” non è un argomento».—

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