Premierato, il Pd e la regola del contrario

La Presidente del Consiglio sembra avere studiato nei dettagli la “lezione” di Renzi. Per evitare di fare la stessa fine. Ma anche le opposizioni, e lo stesso Pd, conoscono bene quella vicenda
Fabio Bordignon
La facciata di Palazzo Chigi illuminata con il tricolore Foto AgF
La facciata di Palazzo Chigi illuminata con il tricolore Foto AgF

Il premierato rimane la madre di tutte le riforme: Meloni lo ha ribadito a Roma. Nei giorni scorsi, tuttavia, ne ha scollegato l’esito dalle sorti del governo. Non è escluso che possa rallentarne il percorso. La Presidente del Consiglio sembra avere studiato nei dettagli la “lezione” di Renzi. Per evitare di fare la fine di Renzi. Ma anche le opposizioni, e lo stesso Pd, conoscono bene quella vicenda.

“O la va o la spacca”, si era lasciata scappare la premier. Affermazione molto, troppo renziana. Si è subito corretta: chi se ne frega... l’esecutivo va comunque avanti. Come ha ricostruito il costituzionalista Stefano Ceccanti, il governo ha margine per celebrare presto la consultazione popolare. Ma anche per spingerla in là nel tempo. Se opportuno, molto più in là.

Del resto, a differenza di quanto accadde per Renzi, la Presidente del Consiglio non ha bisogno di cercare una legittimazione popolare. Intendiamoci: la tentazione del plebiscito personale c’è e ci sarà. Almeno per ora, Meloni cerca però di muoversi in maniera studiatamente opposta rispetto all’ex premier.

Renzi progettava una revisione complessiva dell’assetto costituzionale, partendo dal tema del bicameralismo perfetto per colpire soltanto di sponda il bersaglio grosso del rafforzamento del governo. Meloni capovolge la prospettiva e pianta come primo (irrinunciabile) paletto l’elezione diretta del capo del governo. Di riflesso, anche l’eventuale quesito referendario sarà più diretto: più semplice da spiegare agli elettori.

C’è poi il nodo della coalizione per le riforme. Renzi mise inizialmente in piedi un accordo largo, centrato sul patto con Berlusconi. Quell’accordo si sfaldò sino ad arrivare al (fatale) uno-contro-tutti. Meloni parte dal perimetro della sua maggioranza, chiedendo alle altre forze politiche di convergere.

Per ora, dall’opposizione, tutti hanno chiuso la porta. Tutti tranne Renzi. Dall’ex partito del rottamatore, i riformisti Pd sottolineano come la riforma, sebbene presenti molti limiti (eufemismo), sia un’occasione da non perdere. Che l’opposizione dovrebbe dare il suo contributo. Che il progetto è, in fondo, in linea con la storia del centro-sinistra e del Pd.

La segreteria, tuttavia, sembra muoversi in modo diverso. Opposto. Strategia? Non solo. Si tratta anche di una posizione di principio. Di più: della volontà di prendere le distanze da una certa tradizione del Pd: una tradizione che non parte certo da Renzi, ma della quale Renzi è diventato la personificazione. Dalle politiche sul lavoro fino alle riforme istituzionali, il Pd di Schlein vuole essere “il contrario” del Pd di Renzi.

Il rischio, per il partito, è che sulle riforme, alla fine, accada esattamente il contrario di quello che accadde con Renzi. Che la riforma passi. Così com’è.

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