Ha raccontato per anni nelle scuole dei suoi genitori sopravvissuti ad Auschwitz: «Ma ora non lo faccio più»
La testimonianza di Armando Chaim, 76 anni: la madre e il padre sopravvissero ad Auschwitz. «Dopo il 7 ottobre ’23 nessuna parola di solidarietà dagli insegnanti con i quali ero in contatto»
Di andare nelle scuole non ha più voglia. Armando Chaim, 76 anni, è stato per anni un testimone indiretto della Shoah raccontando a studenti, conoscenti e a chiunque gli chiedesse informazioni la storia dei suoi genitori, Zaccaria e Margarita, entrambi sopravvissuti ad Auschwitz.
Ora non più. «L’ultima volta sono andato due anni fa, prima di questo maledetto 7 ottobre. Vivere per poter raccontare era la missione dei miei genitori. Raccontare, pur sapendo di non essere creduti».
Chi erano i suoi genitori?
«Erano nati entrambi a Corfù. Mio padre Zaccaria Chaim nel 1909, mia madre Margarita Matatia nel 1922. Pur vivendo nello stesso quartiere, non si conoscevano. Si sono sposati nel 1946 ad Atene, dopo essere rimasti entrambi vedovi a causa della Shoah. Sono giunti a Trieste alla fine del 1946, gli ultimi corfioti ad arrivare. Mio padre era già stato qui, al seguito di mio nonno che si era spostato con la prima migrazione. Nel 1938 è stato espulso come ebreo straniero, ma sono più gli anni che ha vissuto a Trieste che a Corfù».
Che uomo era suo padre?
«Viveva con una certa sofferenza e con una sua filosofia di leggerezza. Aveva molta paura dell’antisemitismo: era stato più volte oggetto di atti ostili e ci raccomandava sempre di fare attenzione. Una delle raccomandazioni che ci faceva più spesso era quella tenersi lontani dagli assembramenti. Un consiglio che seguo ancora. E aveva una caratteristica: amava la pulizia. La sua sofferenza quando era ad Auschwitz, forse più della sigaretta, era trovare un pezzo di sapone».
E sua madre?
«Era vissuta in casa fino al matrimonio. Aveva sposato un ebreo italiano, morto assieme a tanti altri ad Auschwitz. In famiglia erano tutti artigiani, chi materassaio, chi stagnaio. Mia madre aveva imparato il mestiere della sarta, che poi le è servito per voltare i nostri cappotti».
Quando ha conosciuto per la prima volta la loro storia?
«L’abbiamo saputo da bambini. I miei genitori parlavano della prigionia, cercavano di ricostruire qualcosa delle persone che entrambi avevano conosciuto. A Corfù all’epoca c’erano cinquemila ebrei: avevano fatto un appello per le tessere annonarie per raccoglierli in un piazzale, si erano presentati tutti. Da lì li hanno caricati sulle zattere per portarli sulla terraferma, poi su un treno e li hanno portati via. Mio padre è stato preso con la moglie e il figlio di sei anni, si chiamava Leone ed è morto anche lui nel lager insieme alla mamma. Mia madre è stata presa insieme al marito e ai suoi fratelli».
Cosa le hanno raccontato del lager?
«“Siamo andati in Germania” dicevano, ma per loro Auschwitz era Germania. Cosa ne potevano sapere, loro che venivano da un’isola sperduta? Mio padre andava a tagliare la legna, mia madre lavorava in una fabbrica di munizioni alla Buna, lo stesso stabilimento dove lavorava Primo Levi. La cosa più scioccante era quando raccontava che ogni tanto saltavano dei proiettili e colpivano gli operai al lavoro. Riempivano mitragliatrici e obici, più di qualcuno restava ucciso. Raccontavano anche delle impiccagioni: il giorno prediletto dai nazisti per impiccare gli ebrei era il sabato».
E la fame?
«Andavano a raccogliere scorze di patata e di barbabietola nella spazzatura delle cucine dei nazisti, scambiavano un pezzo di pane con uno di patata. Mio padre aveva sempre l’impressione che chi era in fila prima di lui ricevesse una fetta di pane più grande. Si è salvato dal plotone di esecuzione proprio gli ultimi giorni prima della liberazione: li avevano portati fuori dal campo per fucilarli, ma lui è riuscito a nascondersi in un pozzo scavato nella terra. I suoi compagni sono andati avanti, lui ha sentito gli spari ed è rimasto nascosto. Ha vagato finché non ha trovato un campo di prigionieri politici italiani, che lo hanno nascosto fino alla liberazione».
E il ritorno?
«È stato parecchi mesi ricoverato a Bruxelles con la malaria. Una volta guarito, attraverso la Joint, associazione ebraica americana, è riuscito ad andare ad Atene. Lì ha conosciuto mia madre. Sono venuti a Trieste dove mio padre aveva già vissuto, ma con la volontà di continuare il viaggio verso la Palestina o verso il Canada. Poi noi figli siamo cresciuti e hanno deciso di restare. Ma non hanno mai dimenticato le sofferenze, anche se per loro era difficile raccontare. Dicevano: “tanto non saremo creduti”».
Lei ne ha raccolto il testimone, andando nelle scuole...
«L’ho fatto per cinque anni. Adesso francamente non ho più voglia».
Cos’è cambiato?
«Dopo il 7 ottobre non ho visto nessuna partecipazione per Israele, tutte le scuole si sono girate dall’altra parte, tutte pro-Palestina. Non avendo ricevuto una telefonata di solidarietà da parte dei docenti con i quali ho sempre parlato, non ho voluto più sentire nessuno».
Lei è già un testimone indiretto. Chi continuerà il suo racconto?
«Non credo che lo faranno i miei figli. Hanno tanto sentito parlare della Shoah, che è diventata quasi un fardello. È importante essere presenti, ma oggi sono tutti schierati dall’altra parte: gli antisemiti sono quelli di prima, solo che adesso sono dichiarati. E, quando vengono insultate le persone che hanno sofferto, come Liliana Segre, credo che si sia arrivati alla fine della civiltà». —
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