Vita, amori e morte di Anne Sexton poetessa bellissima e dannata

Il 4 ottobre del 1974 Anne Sexton dopo essere stata in compagnia di Maxine Kumin, sua amica, collaboratrice e amante, tornò a casa, scese in garage, chiuse tutto, entrò nell’auto, accese il motore e la radio e si lasciò morire. Dopo diversi tentativi di suicidi finalmente la poetessa considerata pioniera di una lirica disinibita, sensuale, dirompente, nonché icona (suo malgrado) dei movimenti femministi, era riuscita a mettere fine a una vita difficile, segnata da un disturbo bipolare, sempre in bilico tra i successi dell’arte e il disastro della vita privata. Sulla figura di Anne Sexton sono stati scritti diversi libri, a cominciare dall’imprescindibile biografia di Diane Wood Middlebrook, uscita in italiano nel 1998 per Le Lettere. Ed è proprio da questo libro che parte Irene Di Caccamo - qui alla sua seconda prova narrativa dopo “L’amore imperfetto” vincitore del Rapallo Opera Prima - per redigere una biografia romanzata della Sexton, “Dio nella macchina da scrivere” (La Nave di Teseo, pagg. 262, euro 18,00), un lungo racconto in prima persona, in forma di monologo/diario, che accompagna il lettore nei labirinti di un’anima dilaniata che trovò nella poesia la sua salvezza e la sua dannazione.
Le biografie romanzate sono un genere sempre ad alto rischio, perché devono avere la capacità di andare oltre il dettato meramente biografico, affidando alla qualità della scrittura, della lingua e della struttura narrativa il significato e la forza di una storia sempre complessa, com’è ogni racconto di vita. Di fronte a narrazioni biografiche basate su dati oggettivi, affidarsi a una libera rappresentazione, che di per sé tradisce l’intenzione oggettiva della biografia, può facilmente portare a un lavoro deludente. Ma Irene Di Caccamo, spinta da autentica passione e da un’attrazione irresistibile verso quel baratro che fu l’esistenza di Anne Sexton, pur con tutte le libertà del caso («alcuni dei fatti narrati - spiega l’autrice in postfazione - (...) hanno una corrispondenza con la sua storia, altri invece sono stati completamente stravolti o sono frutto della mia fantasia, così come molti dialoghi presenti»), riesce a imbastire un racconto che si sforza di cercare «una doppia voce» per entrare «in connessione anche con il dolore, con l’autentico, con l’urgenza della parola, che in lei è stata una forma di terapia, oltre la maschera di cui si è servita per essere nel mondo».
Rampolla di una famiglia della buona borghesia, Anne Sexton non ebbe un’infanzia facile, tra un padre alcolizzato che molto probabilmente abusò di lei, una madre che soffocò con ogni mezzo le sue aspirazioni letterarie, e un’amata prozia, Anna Ladd Dingley, il cui ricovero in una casa di cura traumatizzò la giovane futura poetessa. Tralasciando volutamente il rapporto con la prozia, Irene Di Caccamo concentra il suo racconto principalmente sui rapporti di Anne Sexton con le figlie Margherita e Rosa, con il marito, e con i numerosi amanti, sia uomini che donne, limitandosi però a una ristretta scelta (glissando per altro sull’ipotesi varie volte avanzata di una sua relazione anche con Sylvia Plath, altra regina della grande poesia morta pure lei suicida).
«Mi rendo conto con un certo senso di colpa - confida Anne Sexton al medico curante in uno dei dialoghi immaginati da Di Caccamo - che sono una donna e che per me dovrebbero essere importanti i figli o mio marito, la mia casa, e non scrivere. Ma non è così, amo le mie figlie, ma non sono abbastanza brava da essere presa dalla loro cura, mi logora e non ho pazienza». L’insanabile ed eterna lotta tra vita e arte: è questo il perno attorno al quale Irene Di Caccamo fa ruotare la sua narrazione, dando di Anne Sexton una rappresentazione efficace nei percorsi del caos emotivo ma forse non abbastanza per andare oltre la ferocia e il dolore delle parole lasciate da Anne Sexton nei suoi versi. —
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