Viola Ardone e quei bambini meridionali mandati in treno dalle famiglie “rosse”
Giovedì la scrittrice a “Il libro delle 18.03” a Gorizia racconta un capitolo poco conosciuto della storia del dopoguerra

GORIZIA Un caso editoriale e una storia che commuove e sorprende l’ultimo romanzo di Viola Ardone. “Il treno dei bambini” (Einaudi) in questi giorni è in testa alla classifica dei libri di narrativa più venduti, insieme a Sveva Casati Modignani e Francesco Guccini. Giovedì il volume verrà presentato a Gorizia a Palazzo de Grazia dall’autrice nell’ambito della rassegna “Il libro delle 18.03”, con il preludio musicale della giovane arpista Paola Gregoric.

Le pagine scritte da Ardone riportano a una vicenda italiana poco nota. Il protagonista, il piccolo Amerigo Speranza, è la voce narrante di un lungo viaggio, esperienziale, storico e metaforico insieme. Siamo nell’Italia del dopoguerra. Nel 1946 il Partito comunista organizzava dei treni speciali che si muovevano dal Sud al Nord Italia, dove famiglie “rosse” e solidali accoglievano migliaia di bambini del Meridione, terra di miseria e arretratezza. Amerigo è uno di questi bimbi che con candore e istinto di sopravvivenza si destreggia tra due mondi dalle distanze pressoché siderali. La sua permanenza a Modena durerà diversi mesi e finirà per segnare l’intera sua esistenza e il rapporto con la madre Antonietta.
Signora Ardone, da dove è nata l'idea del libro e come ha scoperto questo tema così poco conosciuto nella memoria storica italiana?
«IL libro è nato perché ha chiesto fortemente di nascere. Dal primo momento in cui sono venuta a conoscenza di questa storia non ho pensato ad altro che a volerla raccontare. Non tramite la forma del saggio, ma del romanzo. Volevo che fossero i protagonisti a parlare, cercavo il punto di vista dei bambini. Così è nato Amerigo».
Come si è documentata?
«Ci sono alcuni bei documentari sul tema: “Gli occhi più azzurri” della napoletana Simona Cappiello, e poi “Pasta nera” di Rinaldi e Piva, a cui si è ispirata anche una canzone omonima dei Modena City Ramblers, sulla vicenda dei bambini di San Severo di Puglia, ma anche l’opera di Giulia Buffardi, sempre su Napoli. Ho fatto ricerche in emeroteca sui giornali dell’epoca, ho letto tutto quello che riguardava la Napoli del dopoguerra, in particolare Ermanno Rea. E poi ho avuto la fortuna di conoscere alcuni “bambini” dei treni, oggi ottantenni, che mi hanno regalato le loro esperienze».
Ha conosciuto personalmente il protagonista, Amerigo?
«Amerigo non esiste, è un personaggio di fantasia ma che porta in sé tante storie di cui ho letto e che mi sono state raccontate. In lui c’è anche la bambina che sono stata io (anche se in un’epoca molto diversa). I bambini hanno dei tratti universali, un modo di guardare il mondo fatto di innocenza e furbizia».
L'ospitalità dei bambini del Meridione nelle famiglie del Nord Italia in che tipo di politiche si inseriva?
«Il Partito comunista cercava un rapporto diretto con le persone. Un po’ per fini di propaganda (nel meridione in particolare i monarchici erano ancora molto forti, così come i cattolici) ma soprattutto perché esisteva all’epoca una “cultura” della solidarietà. Di fronte a un’emergenza, come quella dei bambini del dopoguerra, era necessario fare qualcosa, dare risposte concrete e immediate, anche se imprecise e approssimative».
C'è, velatamente nel libro, un contrasto tra il modello di solidarietà della chiesa e quello del Pci. Esisteva comunque un sistema solidale intrinseco nella società italiana dell'epoca?
«Credo di sì. C’era un sistema di solidarietà: quello della Chiesa era basato sulla carità, quello del Partito comunista sulla politica. La solidarietà, l’accoglienza, l’aiuto reciproco erano valori diffusi e condivisi in quell’Italia. Oggi non siamo più cattivi o menefreghisti, c’è solo un maggiore individualismo e forse si è persa la speranza nel poter essere d’aiuto a qualcun altro, nel poter cambiare le cose».
Che differenze culturali c'erano, subito dopo la guerra, tra le famiglie del Nord e del Sud Italia?
«Un signore molto anziano, che era stato anche lui sui treni, mi ha raccontato che a Napoli, quando la sorella maggiore usciva con il fidanzato, lui bambino o un altro maschio di casa doveva accompagnarla e sorvegliarla. Nel paesino dell’Emilia dove fu accolto per alcuni mesi, invece, le ragazze e i ragazzi potevano uscire insieme senza alcun “controllore”. Questa cosa lo meravigliò molto e dopo più di settant’anni ne conservava ancora il ricordo. E poi la lingua: ciascuno parlava il suo dialetto e a volte era difficile capirsi. Una bambina napoletana non smetteva di piangere e reclamava a gran voce la sua “pazziella”. I suoi genitori del nord dovettero faticare molto per scoprire che la “pazziella” era il giocattolo della bimba».
Come era invece il divario economico?
«Le famiglie affidatarie del nord non erano ricche. Si trattava però di contadini che avevano un po’ di terra e qualche animale e che perciò potevano aggiungere un piatto a tavola per questi bambini bisognosi».
Il volume è stato un clamoroso successo editoriale. Secondo lei per quale aspetto in particolare?
«Credo che sia bello per chi legge riappropriarsi di una pagina della nostra storia bella e commovente. E poi c’è la vicenda privata di Amerigo e di sua madre Antonietta, quel rapporto di amore che viene messo in crisi dalla violenza della storia, dalla povertà, dal bisogno. Per loro la separazione è una ferita che non si rimargina». —
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