Viaggio nelle caserme fantasma della regione

Domani al cinema Ariston di Trieste il film del regista friulano Diego Clericuzio sui tempi della militarizzazione a Nordest
la palestra di una caserma abbandonata
la palestra di una caserma abbandonata

TRIESTE. Ben 428 siti militari che occupano 102 chilometri quadrati della nostra regione, più del 50% dell’Esercito dislocato sul territorio: sono i numeri impressionanti che hanno fatto del Friuli Venezia Giulia una delle terre più militarizzate del mondo, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino. A raccontare l’impatto economico, ambientale, ma soprattutto sociale ed emotivo di una presenza militare così massiccia arriva il documentario “Un paese di primule e caserme” del regista friulano Diego Clericuzio, che domani presenterà il film a Trieste, al Cinema Ariston alle 21, insieme agli autori Riccardo Costantini e Paolo Fedrigo, in un incontro organizzato da La Cappella Underground. Con loro interverrà anche l'architetto Alessandro Santarossa che sta mappando i siti militari in regione: una rete capillare di caserme, campi volo, fortificazioni, depositi che, quando il Friuli Venezia Giulia improvvisamente smise di essere il confine italiano affacciato sulla cortina di ferro, vennero abbandonati in fretta e furia e, per la maggior parte, lasciati all’oblio fino ad oggi come fantasmi di una guerra mai iniziata.

«Nessuno sa che il Friuli Venezia Giulia è stata una delle zone più militarizzate d’Europa: volevo raccontarlo soprattutto perché è la storia della gente di questa terra», dice Diego Clericuzio, già esperto regista di film industriali e commerciali. «La dismissione delle caserme è un pretesto per parlare di come 60 anni di presenza militare hanno segnato la vita delle persone comuni, di tutti noi». Nel documentario, prodotto da Tucker Film, DMovie e Cinemazero con il sostegno di Arpa Fvg e, in fase di progetto, del Fondo Audiovisivo Fvg, parlano alcuni ex militari di professione, come un generale di corpo d’armata e un maresciallo della logistica, ma anche tanti civili che hanno vissuto gomito a gomito con l’Esercito. Ci sono il ristoratore della trattoria nei pressi della caserma Spaccamela a Udine (che dice emozionato: «Non faccio più patate fritte: ne ho fatte troppe coi militari. Erano come miei figli. Quando si congedavano, sai quanti pianti…»), il fornaio che ricorda come le caserme fossero a volte il pilastro dell’economia di un intero paese («Facevamo 20-30 quintali di pane militare, dieci di civile: lavoravamo tutti, i tabaccai, i postini a portar quintali di lettere»), una delle tante coppie che si è formata grazie alla leva, lei friulana, lui militare meridionale. E c’è anche l’anziano alpino partito da Ariano Irpino per trovare lavoro nell’Esercito, che si commuove a rientrare nella caserma di Pontebba in rovina. Si calcola che circa tre milioni di persone abbiano fatto il militare in Friuli Venezia Giulia. Per 60 anni, insomma, “ci eravamo tanto armati”: «La reazione di quel tempo era comprensibile», commenta Clericuzio. «Il nemico era schierato in Ungheria e davvero si pensava che potesse entrare da un momento all’altro dalla soglia di Gorizia. Il documentario racconta le conseguenze di questa iper-militarizzazione da tutti i punti di vista». Per esempio, quello ambientale: «Circa la metà del territorio era servitù militare: non si poteva costruire, coltivare. Questo ha permesso anche la conservazione di tanti biotipi naturali della regione». Oggi però i siti chiusi possono celare situazioni pericolose, come la presenza di eternit e di amianto, che non risultano nemmeno nei censimenti dell’Arpa. Il regista ci porta direttamente dentro le caserme dimenticate, tra le quali la caserma Monte Cimone di Banne, mostrando la loro immobile decadenza con inquadrature fisse e simmetriche. «Una riconversione di tutti i siti è impensabile: sarebbe troppo dispendioso per le istituzioni». Di questo “Paese di primule e caserme”, come Pier Paolo Pasolini definiva il Friuli Venezia Giulia, la gente vuole di certo saperne di più: lo dimostrano le donazioni spontanee di 150 sostenitori che, attraverso il “crowdfunding” lanciato su internet, hanno permesso di completare la realizzazione del film.

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