«Vi racconto chi era mio padre, Elio Vittorini»
TRIESTE «L’allarme fascismo è fondato, ma non esiste ancora una risposta adeguata da parte dei “resistenti”». A dirlo è il figlio di Elio Vittorini, lo scrittore siciliano che nel giugno del 1945 pubblicò il primo romanzo sulla Resistenza intitolato "Uomini e no”. A centodieci anni dalla sua nascita, Elio Vittorini sarà ricordato oggi dal figlio Demetrio, traduttore, docente di italiano e autore anche di alcuni libri dedicati al grande scrittore, tra cui “Un padre e un figlio” che verrà presentato alle ore 17.30 al Circolo della stampa (corso Italia, 13) da Giuliana Stecchina, professoressa all’Università di Trieste e di Pola.
Che forma ha scelto per raccontare suo padre?
È una biografia di mio padre e della mia vita con lui. Non potevo raccontare altro. In fondo è anche la mia biografia. Il libro comincia con Siracusa e racconta i suoi vari periodi e viaggi.
Elio Vittorini diceva: "Qui sono le nostre radici e qui voglio chiudere gli occhi per sempre, nello stesso posto dove li aprii". Qual è stato il suo rapporto con le radici siciliane e quale quello con la letteratura italiana, che riteneva provinciale.
Mio padre è andato via da Siracusa perché non la tollerava. Ha fatto un tentativo di tornarci ma rimase disgustato è andò a Firenze dove ha vissuto tanti anni. La letteratura di quel tempo la trovava provinciale.
E così si dedicò alla letteratura anglo-americana. Proprio da Trieste proveniva quella che è stata definita la sua "traduttrice ombra", ovvero Lucia Rodocanachi.
Io l'ho incontrata in vacanza con mio padre a Bocca di Magra nel ’39, quando ero un bambino. Tutto quello che mi ricordo è che indossava una gonna scozzese e qualcuno le disse: “Guarda che se ti vedono con quella gonna, ti prendono per una spia”. Un giornalista frequentava questa Lucia quando ormai era vecchia e vedova e si fece lasciare le carte, dalla quali poi affermò che Vittorini aveva una “negra” che traduceva per lui. Invece, mio padre aveva solo fretta di tradurre, perché aveva poco tempo e doveva scrivere altre cose, e allora Lucia gli faceva da vocabolario con una traduzione letterale che poi lui rivedeva in maniera letteraria.
Suo padre lavorò per un certo periodo anche come contabile in un'impresa di costruzioni a Gorizia.
Mi ricordo che una volta mi disse: “Gorizia è una città asburgica”. Io ci sono nato, ma già un mese dopo venivo battezzato a Firenze. Gli proposero anche di fare il sindaco in un paesino del Friuli, ma lui rispose: “non voglio vestirmi in orbace” (la divisa fascista, ndr).
Il titolo del suo romanzo più noto è stato recentemente su una copertina del settimanale “L’Espresso”.
“Uomini e no” è stato descritto come un romanzo sulla Resistenza. Invece, è una storia d'amore. Quella è la cosa più importante, poi c'è anche qualche attentato e lotta. Non è un libro conciliatorio, però non è neanche un libro di condanna per i "no", c'è sempre la possibilità di tornare uomini.
Però c'è anche la possibilità di tornare "non-uomini", no? Pensa che oggi ci sia un allarme fascista?
Sì, lo penso. È chiaro, ad esempio, quando sento Salvini che dice "me ne frego". E poi c’è di Di Maio che una volta arrivato al potere vuole fare il dittatore, come anche l'altro. Non siamo ancora al fascismo, ma l'allarme è giustificato.
Quale sarebbe oggi una forma di resistenza?
Non votare più Lega e 5Stelle, visto che per il momento le elezioni sono libere. Chiunque non sia in questo momento 5Stelle o Lega va votato, perfino la Meloni di Fratelli d'Italia. —
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