Vera Vigevani Jarach madre di Plaza de Mayo Su di lei il male del ’900

il raccontoSi pensa di conoscere la Storia, di averla studiata e compresa fin nelle sue pieghe più buie sfociate in guerre, persecuzioni o genocidi. Quando però ci si trova di fronte a chi quel lato...

il racconto



Si pensa di conoscere la Storia, di averla studiata e compresa fin nelle sue pieghe più buie sfociate in guerre, persecuzioni o genocidi. Quando però ci si trova di fronte a chi quel lato oscuro l'ha incolpevolmente subito, vivendolo, a più riprese, sulla propria pelle, ecco che lo sgomento ci assale. Può una sola persona incrociare nella sua esistenza due tra le più spaventose tragedie del '900? A Vera Vigevani Jarach è successo: se le leggi razziali e la Shoah hanno segnato la prima parte della sua vita, con l'amato nonno mai più tornato da Auschwitz e lei, ebrea milanese, espulsa da scuola e con i cari costretta all'esilio in Argentina, proprio in quel Paese che anni prima l'aveva accolta a braccia aperte vedrà sparire l'unica figlia, desaparecida nel '76 e giustiziata, 18enne, dalla dittatura di Videla in uno dei tristemente celebri voli della morte.

Eppure, nello spirito grintoso e indomito della 90enne Vera, una che con la sua vicenda ha catturato l'attenzione di personalità non propriamente cedevoli come la cancelliera Merkel, non esiste asprezza né senso di vendetta alcuno. «È giusto riflettere sul secolo scorso a cui ho appartenuto – spiega - ma sono anche di questo secolo: perciò m'interessa parlare, raccontare ma soprattutto guardare avanti».

Nei tanti viaggi compiuti per riportare, specie nelle scuole, la sua esperienza arriva ora a Trieste, città natale del marito Giorgio: proprio uno dei ragazzi espulsi dal liceo Petrarca perché di fede ebraica, incontrato nell'esilio forzato di Buenos Aires. Stasera Vera Vigevani Jarach riceverà il Premio Salvador Allende 2018 assegnatole dal Festival del Cinema Latino Americano.



«A dieci anni – racconta - mi han cacciato dalla scuola elementare a Milano: è venuta la maestra a casa a dircelo, con me presente. Ero bambina ma non stupida: mio papà, avvocato, mi aveva spiegato il concetto di giustizia, che ci volevano le prove per mandarti in prigione, ma qui ero di fronte a qualcosa di completamente nuovo, diverso, ingiusto. È stato un espatrio molto doloroso, con mia madre che cercava di convincere papà che stavano succedendo cose molto pericolose e tuttavia lui che resisteva. Siamo partiti da Genova con la nave: ho questo ricordo di papà, antifascista, mutilato di guerra, che aggrappato al parapetto urlava “Viva l'Italia”: c'era molto patriottismo, nonostante tutto. Forse è anche per questo che sono sempre rimasta italiana e non ho mai preso la cittadinanza argentina. Il nonno materno, invece, è rimasto a Milano finendo in campo di concentramento ad Auschwitz: come per mia figlia, anche per lui non abbiamo mai avuto una tomba per piangerlo».



«Eravamo - continua - una piccola comunità di ebrei italiani: si formavano le amicizie, soprattutto di noi bambine, mentre mio padre e Leone Amati, avvocato suo amico, avevano fondato l'Adei che stava per “Amici degli ebrei italiani”, associazione con cui andavano all'arrivo delle navi per dar consigli e aiuto ai nuovi arrivati. Uno dei grandi amici di quel tempo e che mi porto avanti da tutta la vita, arrivato col papà Enzo e gli altri sei fratelli, è anche Arrigo Levi; ha cercato di aiutarmi quand'è scomparsa mia figlia, senza poter far troppo, però».

«A Buenos Aires il presidente era malato e ha rimesso l'incarico. C'è stato un primo colpo di stato, poi altri quattro. In mezzo, periodi di democrazia, ma sempre più brevi. L'ultimo colpo è stato il peggiore. C'erano state avvisaglie, gente che aveva iniziato a scomparire. Poi il silenzio: nel '73 ad esempio si seguiva il colpo di Pinochet in Cile, si vedeva in tv lo stadio con i detenuti, se ne parlava tanto. Ma improvvisamente Videla inizia a nascondere tutto. E iniziano i desaparecidos. La parola già esisteva in Algeria: da lì arrivavano gli ufficiali dell'Oas per insegnare in Argentina la tecnica della scomparsa delle persone, come cancellare tutto. Credevano di esserci riusciti ma la storia ha dimostrato che no, non lasceremo mai nè che si cancellino né che si neghino crimini dell'umanità che hanno fatto 30mila vittime. Ma potrebbero essere di più, perché non se ne conosce la vera entità. Anche mio marito è morto prima di conoscere la fine di nostra figlia».



«Un giorno è lei, Franca, a non tornare a casa. Noi cerchiamo di sapere. Tra le madri iniziamo a conoscerci, perché andiamo negli stessi posti a chiedere e scambiarci informazioni. Alla Casa Rosada potevamo andare una volta al mese a chiedere notizie. Una volta mi hanno detto che è la tratta della prostituzione, un'altra, perversamente, “faccia finta che sua figlia è in vacanza”. Ma noi sapevamo cosa accadeva, perché ogni tanto mandavano fuori qualcuno che raccontava. Un giorno una madre, Azucena Villaflor dice basta: dobbiamo farci vedere e andare in piazza. Sono nate così le madri de Plaza de Mayo: stessi dolori, stesso viscerale desiderio di sapere dov'erano i nostri figli. Non eravamo eroine, andavamo a braccetto perché avevamo paura. Anche oggi, dopo tanti anni, ci siamo: siamo vecchione ma fino a che avremo teste per pensare e gambe per camminare l'imperativo sarà sapere la verità, avere giustizia nei tribunali e portare avanti la memoria. Mai più silenzio, aggiungo io, rompendo l'indifferenza e stimolando il senso responsabilità per non trasformarci mai più in ignavi». —

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