Veleni e magiche pozioni Vengono da Trieste le prime anforette d’oppio

in esposizione
Tra le figure più rappresentative del Rinascimento, Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelso (1493 – 1541) è stato colui che ha saputo unire in maniera indissolubile cabala, medicina, alchimia, magia, teologia e filosofia. Noto per il suo trattato di medicina, egli tra l’altro affermò: “Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit”, ovvero, “Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”.
Lo stesso caduceo, simbolo della farmacia, è un bastone alato con due serpenti che rappresentano uno la dose terapeutica, curativa, e l’altro la dose tossica, il veleno: al farmacista il compito di trovare il giusto equilibrio, in virtù della sua conoscenza.
Il sottile confine tra il veleno che uccide e il veleno che salva, è il tema di una mostra quanto mai singolare intitolata “Veleni e magiche pozioni. Grandi storie di cure e delitti”. Allestita al Museo Nazionale Atestino di Este (Padova) è curata da una archeologa e da un’esperta di storia della farmacia, Federica Gonzato e Chiara Beatrice Vicentini, che hanno voluto indagare storie, miti, leggende, tradizioni legate a veleni, pozioni, medicamenti utilizzati sin dai tempi più remoti.
Già nell’Odissea si ricordano i “pharmaka” sia buoni che mortali provenienti dall’Egitto ma in realtà l’esposizione racconta che sin dal Paleolitico, ovvero migliaia di anni fa, gli uomini sapevano trovare sostanze utili alla migliore sopravvivenza. In particolare, allora, si faceva largo uso di ocra per le sue proprietà antisettiche e protettive della pelle e si curava il mal di denti con la propoli.
Risalgono invece al Neolitico le prime testimonianze dell’uso dell’oppio nell’Europa continentale, commercializzato dalla Spagna alla Grecia. Due anforette provenienti da Cipro risalenti al XV-XI sec. a. C., prestate dal Civico Museo d’Antichità J. J. Winckelmann di Trieste, richiamano nella loro forma la capsula dell’oppio, probabilmente per rendere immediatamente chiaro all’acquirente il contenuto.
Sempre delle collezioni del Museo Winckelmann è una placchetta in ambra rossastra intagliata a raffigurare Hypnos, il dio del sonno: egli appare con il braccio sinistro alzato e piegato dietro la testa a ricordare la posizione dormiente mentre con la mano destra lungo il fianco tiene uno stelo con una grossa capsula di papavero da oppio. Dalla preistoria all’antica Roma passando attraverso la ceramica attica, offerte votive riproducenti parte anatomiche, gemme magiche con iscrizioni o iconografie di divinità, i reperti e gli oggetti proposti al museo di Este sono moltissimi e diversissimi spaziando dall’arte all’archeologia, alla botanica, alla zoologia, alla mineralogia, alla farmacologia.
La questione del “beneficio” o del “maleficio” di alcune sostanze viene affrontata ricordando la misteriosa morte di Cangrande della Scala, signore di Verona, avvenuta a Treviso il 22 luglio 1329. Quando nel febbraio del 2004 venne aperta la sua arca funebre, si decise di eseguire un’autopsia sulla salma mummificata e su quanto restava dei suoi organi interni. Si rinvenne così un quantitativo pericoloso di estratti di una pianta nota come “digitale” (la più famosa è la digitalis purpurea). Tale pianta possiede delle sostanze dagli effetti cardiotonici ma se assunte in dosi superiori possono causare la morte del paziente. Il medico di corte che aveva somministrato a Cangrande la pozione letale di digitale commise un errore o un omicidio?
Le storie di tre donne la cui sorte fu condizionata dai veleni e dalle pozioni vengono poi rievocate dai dipinti di Mazzoni, Bellotti, Scattola che ritraggono rispettivamente Cleopatra, Medea, Giulietta. Vari documenti antichi trattano quindi i diversi volti della magia e della stregoneria, con intossicazioni scambiate per possessioni demoniache.
Il leggendario basilisco, re dei serpenti, velenosissimo, in grado di uccidere con il solo sguardo, di cui parla anche la scrittrice J. K. Rowling in “Harry Potter e la camera dei segreti”, ma di origini ben più antiche, compare in un artefatto realizzato con il corpo di un pesce cartilagineo della famiglia delle razze; alto circa 30 cm, presente nelle raccolte del Museo Moscardo costituito nel 1600, oggi è conservato nel Museo di Storia Naturale di Verona.
Si rievoca poi la favola della principessa che bacia un rospo vedendolo trasformarsi in principe notando come i rospi del genere Bufo, se disturbati, possano secernere dalle loro ghiandole tossine dagli effetti allucinogeni.
Anche nella cosmesi si possono nascondere i veleni: si indaga l’eterno desiderio di giovinezza, dai tempi dei sumeri e degli antichi egizi per giungere alla modernità. Sorprende e inquieta un manifesto disegnato da Mauzan nel 1923, che pubblicizza “Radia”, una saponetta radioattiva delle Saponerie F. lli Bernardi di Torino. Ma che dire della tossina botulinica usata oggi come antirughe? Per concludere, uno sguardo rivolto all’Oriente, pur nelle diversità di usi e costumi, rivela varie analogie con quanto visto in Occidente. La mostra, corredata da un catalogo (La Grafica Editrice), rimarrà aperta fino al 2 febbraio. —
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