Ungaretti, il fante-poeta e la sporca guerra

di ELVIO GUAGNINI
Alla fine del lungo centenario della Grande guerra, sarà ben necessario fare il bilancio anche bibliografico delle pagine (atti di convegni, cataloghi di mostre, riedizioni, pubblicazioni di inediti, saggistica) che lo avranno accompagnato, distinguendo l'utile il buono il necessario dall'occasionale. In termini anche letterari, va ricordato che, in questo 2016, ricorre il centenario della pubblicazione (a Udine, Stabilimento Tipografico Friulano, in soli 80 esemplari, per iniziativa di Ettore Serra) di “Il porto sepolto” di Giuseppe Ungaretti, «la prima raccolta di versi che, scritta da un soldato al fronte, esprime la crudeltà della guerra moderna senza retorica e con totale aderenza alle minute esperienze degli uomini in divisa, che fino ad allora non avevano quasi mai trovato un'efficace rappresentazione letteraria».
Lo ricorda Francesco De Nicola, professore di Letteratura italiana contemporanea all'Università di Genova, in apertura della recente antologia, ricca e ben annotata, “Gli scrittori italiani e la Grande guerra” (Ghenomena) curata con Maria Teresa Caprile: una prospezione organica di questa letteratura dalla vigilia dell'entrata in guerra ai vari fronti, scenari, armi, condizioni (come la prigionia), fino alla conclusione. Più recentemente, De Nicola ha curato una splendida edizione di un epistolario finora inedito di Giuseppe Ungaretti, “Lettere dal fronte a Mario Puccini” (Archinto): 26 lettere, scritte tra il marzo e il dicembre 1917, da Ungaretti - soldato semplice di fanteria - a Mario Puccini che, da fante semplice, era stato promosso ufficiale nel 1917 e destinato al Comando supremo, noto poi, come scrittore, per alcuni libri importanti sulla guerra come “Davanti a Trieste”, “Come ho visto il Friuli”, “Dal Carso al Piave (Caporetto)”, “Il soldato Cola”.
Nelle lettere di Ungaretti si trovano molte chiavi di lettura per capire aspetti di rilievo di quella guerra ma anche per capire Ungaretti e per leggere i versi relativi a quella esperienza. Ungaretti, nato ad Alessandria d'Egitto da famiglia di origini lucchesi, studente all'Università di Parigi, schedato dalla polizia italiana (nel 1914) per le sue frequentazioni anarchiche e per gesti considerati sovversivi, aveva sùbito aderito - allo scoppio del conflitto - a posizioni interventiste, in una «singolare miscela (come ha scritto Leone Piccioni) d' anarchismo e interventismo», considerando quella occasione come una possibilità di libertà, una sorta - secondo un motto diffuso - di «guerra al regno della guerra».
I versi di Ungaretti testimoniano, poi, la sua proiezione nella tragedia di uomini nella cui vita ha fatto irruzione la morte generando sbigottimento, solitudine, smarrimento, dolore, ma anche amore, solidarietà, attaccamento alla vita, senso di inermità di fronte al destino. In queste lettere troviamo un Ungaretti che - sfibrato da un lungo servizio in prima linea sul Carso - si trova trasferito in una Compagnia Presidiaria e costretto a frequentare il corso allievo ufficiali. Un leitmotiv di queste lettere è la avvertita e dichiarata inettitudine al comando ma anche - invece - la volontà di tornare in linea, da semplice fante, con il proprio reggimento, evitando imboscamenti e - magari - mettere a disposizione le proprie attitudini, come la perfetta conoscenza del francese, utilizzate quando - più tardi - il 19° (raggiunto finalmente da Ungaretti) avrebbe combattuto in Francia. In queste pagine, Ungaretti si fa portavoce del dolore comune di un uomo che vive in prima persona - dal basso - quella tragica esperienza, legato a quegli uomini dai quali si sente amato, che avverte il senso del dovere («Tu sai cosa sia il dovere per noi»), che non vuole favori ma solo "giustizia", preso da profonda "inquietudine" (quella che «ti tiene desto nella vita»), che ama la vitalità e la ricchezza umana dei commilitoni e rifiuta la retorica. Come rifiuta gli atteggiamenti di un D'Annunzio «che fa “le pose plastiche” in ginocchio di fronte ai feretri, col lembo della bandiera in mano e non so in qual altro modo, dinanzi al fotografo sempre immancabile», una specie di «”'eterna modella” che mentre in ogni casa d'Italia c'è il lutto fa il fatuo esteta».
Di particolare rilievo una lettera, scritta dopo Caporetto, dove sofferenza e speranza sembrano annodarsi con una possibile soluzione della posizione personale. Se i Francesi inviano rinforzi in Italia dopo la disfatta, Ungaretti spera di tornare in linea e di essere utile con la propria conoscenza del francese: «Pper 99/100 sono francese; ho fatto l'università in Francia, conosco i francesi e li amo come me stesso; per me è la gentilezza di questa vecchia Europa, come l'Italia ne è la fantasia; potrei essere veramente utile». Una lettera, questa, nella quale - ricorda il curatore - si ritrovano anche richiami a immagini dei versi di “Porto sepolto” quasi a sottolineare l'unità necessaria della sensibilità del poeta e quella dell'uomo alle prese con il dolore e con la speranza.
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