Una letteratura, una voce sola: ma con due anime. Quelle di italiani e sloveni unite grazie a Trieste

TRIESTE. Pablo Ingberg è un poeta e traduttore argentino di origine ebraica che traduce dall’inglese. Anche Joyce. Qualche tempo fa è venuto a Trieste per conoscerne i percorsi triestini e ricreare dentro di sé il clima che aveva ispirato l’opera “Giacomo Joyce”: un breve testo in prosa poetica, un frammento romanzesco. Pablo è penetrante, curioso, sensibile. Gli itinerari di Joyce ci portano dappertutto, dalla casa in cui ha vissuto Amalia Popper e dove Joyce le insegnava inglese, a via San Michele, che egli percorreva al ritorno, e così via. «Dovremo andare al cimitero ebraico, dice Pablo», e registra, fotografa, annota. Durante una breve sosta mi chiede della letteratura triestina, della coesistenza delle due letterature, slovena e italiana.
Gli racconto di Ivan Cankar, il più importante scrittore sloveno, modernista, che è venuto spesso nella nostra città per parlare alla sua gente; gli parlo dell’importanza dei traduttori che con il proprio lavoro hanno costruito e continuano a costruire ponti tra questi due mondi: in passato Giorgio Depangher per esempio, che traduceva Prešeren, il sommo poeta sloveno, icona del romanticismo, oggi tradotto brillantemente da Miran Košuta; gli parlo di Arnaldo Bressan, Veronika Brecelj, Darja Betocchi, Martina Clerici, Patrizia Vascotto, Miha Obit, dimenticando di certo qualcuno; gli racconto dell’Editoriale stampa triestina, casa editrice da sempre impegnata a spianare la strada alla letteratura slovena nell’universo italiano e viceversa; cito gli storici della letteratura che hanno saputo raccontare e collegare i due mondi con occhio critico, ricordo Marija Pirjevec, Miran Košuta, Elvio Guagnini, Tatjana Rojc, gli parlo di Srečko Kosovel, mi chiedo se Srečko leggesse Italo Svevo, penso a Carlus Cergoly, mi domando se conoscesse Boris Pahor o Alojz Rebula.
Gli racconto del grande poeta Miroslav Košuta che credo si riconosca soprattutto nella poesia di Umberto Saba, oltre a quella di altri poeti triestini ed europei. Gli confido che verosimilmente noi sloveni abbiamo letto molto più le opere italiane che viceversa, poiché conosciamo la lingua, gli racconto della corrispondenza tra Cecovini e Alojz Rebula, quando Cecovini ebbe finalmente modo di comprendere il genio sloveno della nostra città, gli svelo la mia amicizia con Susanna Tamaro, di come siamo cresciuti insieme, gli parlo dell’incisivo scrittore Mauro Covacich, di Grisancich, Rumiz, Spirito, del lavoro di Walter Chiereghin, della casa editrice Comunicarte, di come il riconoscimento di Boris Pahor da parte della comunità letteraria italiana abbia finalmente suscitato un maggiore interesse per la letteratura slovena, parliamo di Claudio Magris, di Pressburger, Mermolja ed altri.
Cerco di trasmettergli che esiste una lunga storia tra le due letterature di Trieste, che non conosco nel dettaglio, poiché non mi occupo di storia letteraria, ma so che per molto tempo è esistita una sorta di strana divisione tra la nostra e la loro letteratura, che tuttavia da molti anni - da quando anche il grande Fulvio Tomizza l’ha arricchita con il sua preziosa opera letteraria - viene riconosciuta come letteratura triestina, senza per questo essere meno universale. Una letteratura che trae ispirazione dalla complessa storia di Trieste, dal suo forte legame con il pensiero mitteleuropeo, dall’eterna questione dell’identità, dal confine, dalla pazzia e dalla mitezza, dal conflitto e dalla ricerca della riconciliazione, dalla sua luce, così magica e misteriosa.
Pablo ascolta con interesse, poi ci rechiamo al cimitero ebraico, dove la bora ha spezzato molti rami. Vuole vedere la tomba della conoscente di Joyce, di cui egli parla nel suo frammento poetico. Il guardiano del cimitero prende in mano un enorme libro, cerca l’anno della morte, la trova; accanto al nome c’è il numero della tomba, e la causa della sua morte: suicidio. Pablo è contento di aver trovato la tomba, al cospetto della quale un tempo si era fermato a piangere anche James Joyce.
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