Un pastello sulle Rive del Po per una donna perduta e una donna ritrovata
Quando aveva deciso di esporre i suoi quadri nella piccola galleria d'arte sotto il municipio di Trieste, a Daniel era sembrata una grande idea. Erano anni che non esponeva, non aveva una vera ragione per fare una nuova mostra visto che lui i suoi quadri non li vendeva. Ma quel posto lo affascinava. Dava sulla piazza che si affaccia sul mare e, tra un visitatore e un altro, aveva il tempo di godere di quello spettacolo.
Soprattutto il cielo, che cambiava ad ogni ora del giorno per colorarsi a fine giornata in tramonti che toglievano il fiato. Daniel era un artista. Dipingeva la natura, l'unica cosa che riusciva a dargli una qualche forma di pace e serenità. Non dipingeva mai gli esseri umani, perché li amava molto meno. «Così banali, così scontati, si amano e si odiano, si prendono e si lasciano sempre per le stesse ragioni. Da sempre». Qualcuno lo aveva chiamato misantropo, qualcun altro asociale, scontroso, musone, problematico, fino ad arrivare ad essere definito un mezzo matto. Lui era più o meno d'accordo con tutte le definizioni. Non gli importava granché com'era giudicato dal prossimo.
L'unica cosa che aveva a cuore era dipingere, riempire di colori, segni, emozioni una tela e comunicare attraverso i suoi quadri. Poco altro. Non metteva neppure un titolo alle sue opere perché sapeva che quei paesaggi sarebbero vissuti in ogni persona che li guardava e ognuno di loro avrebbe potuto mettere un titolo a quel quadro e farlo suo. Era un gioco che lo divertiva molto. Aveva messo un catalogo a disposizione dei visitatori, ognuno di loro prima di uscire dalla mostra scriveva il proprio titolo ai quadri che più lo avevano colpito.
Quello era l'unico contatto con l'umanità che ormai aveva da molti anni. Si rendeva perfettamente conto di sembrare un vecchio pazzo a soli quarant'anni, ma la cosa non gli importava. Sua moglie se n'era andata anni prima portata via da un temporale su una strada bagnata e un'automobile da rottamare per quanto era diventata insicura. Un banale incidente. Solo questo pensava quando tornava a quella notte. Non una tragedia, un dramma, la fine del suo mondo. No. Un banale incidente! Da allora il suo bisogno di isolarsi dal mondo si era acuito, si era chiuso in sé e aveva smesso anche di fare mostre. Continuava però a dipingere con impegno e ricreava in quei quadri un mondo migliore fatto di sola natura: boschi, fiumi, montagne e molto spesso il mare. Le persone che entravano alla mostra erano curiose, chiedevano come mai i quadri non avessero un titolo, chiedevano informazioni sulla tecnica e il prezzo delle singole opere. Lui rispondeva con imbarazzo che i suoi quadri non erano in vendita.
Li chiamava “i suoi figli” dai quali non poteva separarsi. Qualcuno sorrideva, qualcuno gli faceva notare che i figli vanno lasciati andare, allo stesso modo i quadri devono regalare emozioni al maggior numero di persone. Lui dava ragione a tutti, sapeva che era tutto vero ma non riusciva, o semplicemente non voleva cederli a persone che non conosceva, senza sapere dove quei suoi figli sarebbero finiti: se in qualche salotto per bene, in qualche taverna o in qualche famiglia deprecabile a fare carta da parati. A volte li vendeva o li regalava a qualche amico sapendo di poterli all'occorrenza rivedere. Quella mostra era stata davvero un'ottima idea.
Aveva ripreso a parlare con passione del proprio lavoro, a volte con semplici appassionati che frequentavano corsi di pittura, altre volte con colleghi, artisti o critici che, a differenza sua, vivevano di arte. Ma la cosa che più lo divertiva a fine giornata era leggere i titoli che i visitatori mettevano alle sue “creature”. «La gente ha una fantasia incredibile», pensava spesso, «molta più di quella che sono abituati a usare». I titoli erano i più strani e raccontavano infinite storie, vite, passioni, delusioni e forse una visione della vita. Alcuni si capivano, altri erano talmente ermetici da risultare incomprensibili.
C'erano titoli così lunghi che sembravano poesie, altri brevi e intensi, quasi un'alchimia di parole, altri sgrammaticati, scritti forse da qualche straniero arrivato con le navi. Ma ce n'era uno in particolare che lo aveva colpito. Era il titolo dato a un quadro che aveva dipinto molti anni prima. Il quadro raffigurava un fiume al tramonto; in primo piano una riva scura evidenziava l'acqua del fiume che scorreva colorata dal tramonto, mentre sull'altra sponda un bosco di pioppi copriva in gran parte l'orizzonte.
Non ricordava nemmeno per quale motivo avesse disegnato quel paesaggio così essenziale e di una tonalità quasi notturna, a parte alcune fasce di colore rossastro di un tramonto che si stava spegnendo. Gli venne in mente all'improvviso che lo aveva fatto dopo un viaggio sulle rive del Po con sua moglie molti anni prima, avevano fermato l'auto ed erano rimasti a guardare la fine del giorno in quell'incanto di colori. Tornato a casa aveva cercato di dipingere la scena pensando di aver colto solo in parte la magia di quel momento. Ma era comunque affezionato a quel quadro e lo esponeva ad ogni mostra.
Quel pastello, meno solare, meno appariscente, meno appagante degli altri era stato tra tutti rinominato con un solo titolo. Il titolo che qualche misterioso visitatore aveva dato al quadro era: “La strada per Helga”. Non aveva idea di chi poteva essere stato, visitatori ce n'erano stati molti dal giorno dell'inaugurazione, con alcuni aveva scambiato qualche parola, con altri solo un saluto.
Ma quel titolo lo aveva in qualche modo colpito, non ne sapeva la ragione. I giorni seguirono gli uni agli altri, mancava ancora poco alla fine della mostra. Era soddisfatto delle impressioni che aveva raccolto, delle reazioni del pubblico, delle domande, delle curiosità, si era sentito in qualche modo parte di qualcosa di più grande della sua solitudine. Valeva la pena fare delle mostre. Non vendere i quadri, ma il contatto con il pubblico aveva deciso che in qualche modo lo arricchiva. Il giorno prima della chiusura notò l'ingresso di due persone anziane.
Si tenevano per mano, lui si appoggiava a un bastone per camminare. Salutarono con un sorriso e guardarono a lungo la mostra in silenzio. Prima di uscire si avvicinarono con garbo e discrezione chiedendo a Daniel se fosse lui l'artista o solamente il custode. Erano stranieri. L'accento era tedesco pur parlando molto bene l'italiano. Chiesero con discrezione se i quadri fossero in vendita. In particolare uno. L'uomo indicò il tramonto sul fiume con uno sguardo molto emozionato. Daniel capì immediatamente che erano loro ad avere scritto quel titolo “La strada per Helga” sul catalogo. Avrebbe voluto chiedere il senso di quella frase. Ma non lo fece.
Era quasi dispiaciuto nel dire che quel quadro, come del resto tutti gli altri, non era in vendita. «Capisco» disse il signore, «ma le chiederei per favore di ripensarci. Non mi dica niente ora, vedo che ha molti visitatori, ma gradirei che lei decidesse nei prossimi giorni di venirci a trovare nella nostra casa a Opicina. Ci terrei a raccontarle perché quel quadro è così importante per me. Per noi», aggiunse guardando la signora.
Lasciò su tavolino dell'ingresso un biglietto da vista e uscirono dalla galleria gettando un ultimo sguardo al dipinto. Daniel pensò tutta la notte a quell'incontro e a quelle parole. Non sapeva cosa fare. Sapeva solo che doveva assolutamente conoscere il motivo di tanto trasporto e tanta commozione davanti a quel paesaggio, altrimenti avrebbe passato il resto dei suoi giorni a chiedersi perché quel quadro era così importante per quelle persone. Il mattino dopo la mostra era ormai chiusa, aveva un giorno intero per portare via i quadri e liberare gli spazi. La prima cosa che fece fu staccare il quadro, caricarlo in macchina e andare all'indirizzo scritto sul biglietto da visita.
Non fu difficile trovare la casa, tutta circondata di ulivi, era sulla collina che si affaccia sul golfo. Quando Daniel suonò il campanello, il portone si aprì all'istante, quasi lo stessero aspettando. Mentre si avvicinava alla casa vide la moglie che lo attendeva sulla porta. Quando scese dall'auto e aprì il bagagliaio la signora sorrise quasi rincuorata. «Grazie di essere venuto. La prego, entri» disse soltanto. Nel salotto il signore era seduto su una poltrona, fece cenno di alzarsi ma Daniel con un sorriso lo invitò a rimanere seduto senza preoccuparsi della forma. «Ho visto che ha portato il quadro» disse con un sorriso, quasi commosso. «Lo appoggi pure sul divano così posso guardarlo ancora. Si accomodi pure dove desidera. Posso offrirle qualcosa?». «No, grazie. È ancora presto per me». Il signore guardava incantato il paesaggio davanti a lui. La signora era rimasta in piedi accanto a Daniel, anche lei guardava la tela con una sorta di commozione. «Lei vorrà sapere il perché di quel titolo, immagino» disse lui con lo sguardo perso nel paesaggio, come se in quel quadro cercasse le parole per raccontare la sua storia.
Ci fu una breve pausa, poi il vecchio riprese a parlare. «Quello che sto per raccontarle è successo molto tempo fa, ai tempi della guerra. Prima di partire per il fronte io e Helga, mia moglie» con uno sguardo indicò la signora che nel frattempo si era avvicinata a lui rimanendo in piedi, «stavamo già insieme. Eravamo innamorati sin da ragazzi e avevamo deciso di sposarci. Non avevamo altro desiderio che passare la vita insieme. Fino a quando la Germania divenne quel mostro che tutti conosciamo. Lei lo sa dai libri e dai film, noi perché lo abbiamo vissuto in prima persona. Mia moglie è ebrea, in quei giorni orribili, per sopravvivere, dovette fuggire in Svizzera con tutta la sua famiglia.
Dovemmo separaci, ma era l'unica possibilità che aveva per scampare a quella follia. Le promisi...no, le giurai che una volta tornato l'avrei cercata ovunque. Non concepivo nemmeno l'ipotesi che dalla guerra sarei potuto non ritornare. Io dovevo sopravvivere per rincontrarla e stare con lei, fosse anche solo per un giorno. Dopo mesi di scontri, fui fatto prigioniero e tenuto rinchiuso in un carcere militare in Emilia Romagna. La guerra stava per finire, molti di noi sapevano che sarebbero tornati a casa ma io avevo costante il terrore delle rappresaglie, della vendetta dei partigiani e degli alleati per tutto quello che noi rappresentavamo. La cosa che più mi terrorizzava non era morire, ma morire senza rivedere Helga. L'unica cosa che volevo era scappare per tornare da lei». Alzò lo sguardo verso la moglie. «Cercavo continuamente un'occasione per farlo. Mettevo da parte le sigarette convinto fossero l'unica merce che avrei potuto scambiare per un qualsiasi favore. Nient'altro avevamo. Solo sigarette che tutti fumavano per non pensare a ciò che era stato e a ciò che sarebbe successo.
Finché un giorno, durante dei lavori su una palazzina ai margini del campo, riuscii finalmente a fuggire. Non avevo cibo, non avevo nient'altro che non fosse la voglia di tornare da lei. Camminai per giorni mangiando ciò che trovavo nei campi e nei boschi, cercando una direzione che mi portasse a nord, verso le montagne dove sarebbe stato più facile nascondermi e poi camminare ancora fino ad arrivare in Svizzera. La strada e le mie speranze affogarono davanti al Po in piena. Non c'erano più ponti allora, e quei pochi erano controllati dalle forze alleate. Era inverno e non avrei potuto attraversare quell'acqua gelida senza morire. Ero disperato, cominciai per la prima volta a pensare che non l'avrei più rivista.
All'improvviso vidi sulla riva del fiume un pescatore con la barca. Non sapevo che fare, non sapevo se mi avrebbe denunciato o altro, se aveva un fucile o una pistola. Mi avvicinai comunque e gli offrii tutte le sigarette che avevo messo da parte durante la prigionia. Era già il tramonto, faceva quasi buio. Quando mi vide il pescatore si spaventò, ma dopo avergli offerto tutto ciò che avevo mi portò dall'altra parte del fiume. Lo attraversammo in silenzio e quello che vidi in quei minuti è lo stesso paesaggio raffigurato nel suo quadro». Rimase in silenzio per qualche secondo. «Le chiedo col cuore di vendermelo. Lo tratterò con cura e, se me lo concede, lo intitolerò “La strada per Helga”».
Daniel rimase senza fiato. Non sapeva che dire, aveva sempre pensato che il posto giusto per i quadri, l'unico posto possibile fosse un museo. «Anch'io sono un artista» continuò con un sorriso il signore. «O meglio, lo ero. Sono stato uno scultore ma ora non ho più la forza per incidere il marmo e la pietra. Avevo una galleria d'arte a Stoccarda e avrei ospitato volentieri le sue opere. Mi piace l'anima dei suoi paesaggi. Raccontano storie». Daniel guardò in silenzio il quadro che aveva dipinto. Non pensava, non avrebbe mai pensato che raffigurasse così tanto.
Capì in quell'istante che il quadro ormai non apparteneva più a lui. Con un velo di solennità il vecchio aggiunse che avrebbe appeso il quadro sopra il letto al posto del crocifisso, per tutti i mesi o gli anni che avrebbero ancora vissuto insieme. Daniel si alzò, strinse la mano al signore e a Helga, li guardò un ultimo istante prima di uscire. Alla richiesta di quale era il prezzo del dipinto Daniel ripose con un velo di emozione che il quadro era nel suo spazio naturale, per lui più prestigioso di qualsiasi museo. Quel giorno stesso Daniel decise che i suoi quadri non appartenevano più a lui. Non li avrebbe più custoditi, tenuti prigionieri, ma come figli li avrebbe fatti viaggiare nel mondo, ovunque qualcuno volesse accoglierli. —
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