Un documentario racconta Alida Valli a cent’anni dalla nascita dell’antidiva

il personaggio
«Ho vissuto troppe storie d’amore nella finzione cinematografica per viverne una vera, tutta mia e per sempre», scriveva Alida Valli nel suo diario dopo la rottura con il suo ultimo compagno, il regista Giancarlo Zagni.
Cinema e vita, per lei, si sono sempre rispecchiati l’uno nell’altra: lo scopriamo proprio dalle parole dei suoi diari ripresi nel documentario “Alida” di Mimmo Verdesca, selezionato al Festival di Cannes e ora finalista ai Nastri d’Argento.
Se davvero le sale riapriranno, in aprile potremmo vederlo al cinema distribuito da Istituto Luce, e poi sulla Rai in occasione del centenario dell’attrice, nata a Pola il 31 maggio 1921 (e morta a Roma il 22 aprile 2006).
Alida Valli è stata fra le più luminose dive italiane, e forse in assoluto anche la più grande antidiva, mai snob, mai capricciosa. In “Alida”, per la prima volta, il pubblico ha accesso ai suoi pensieri più intimi, quelli che per 70 anni ha riportato nelle sue pagine segrete, nelle lettere alla madre e ai figli, e che sono letti qui da Giovanna Mezzogiorno.
Nel documentario scopriamo quanto le sue scelte artistiche siano state indissolubilmente legate ai suoi sentimenti per i figli Carlo e Larry, per il marito, il compositore triestino Oscar De Mejo, per Piero Piccioni e Zagni, ma anche alle sue ferite, come la morte del padre e del pilota Carlo Cogliasca, il primo amore caduto in guerra. «Il racconto parte dal materiale inedito che la famiglia De Mejo mi ha generosamente messo a disposizione», spiega Verdesca. «Non solo lettere e diari, ma anche filmati di famiglia, bobine conservate in una scatola di cartone che abbiamo digitalizzato con la Cineteca Nazionale. Trovare la voce di Alida nei diari è stato fondamentale».
Nel film compare anche il nipote dell’attrice, Pierpaolo De Mejo, figlio di Carlo. «Mia nonna ha iniziato a scrivere da ragazzina e l’ultimo diario che abbiamo trovato l’ha scritto a Fregene, già anziana», racconta il nipote, attore a sua volta.
Sono tanti anche i testimoni interpellati da Verdesca, come Marco Tullio Giordana Giordana (per il suo “La caduta degli angeli ribelli” Valli ha vinto il David di Donatello), Piero Tosi e Bernardo Bertolucci, intervistato pochi mesi prima della scomparsa.
Ma a colpire davvero sono le parole dirette della Valli, talento precoce e consapevole. A otto anni si trasferisce con i genitori da Pola sul lago di Como, e a 14 già entra al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Da “Mille lire al mese” in poi diventa la diva più amata del cinema dei telefoni bianchi.
Ha solo diciassette anni eppure, scrive, «a Cinecittà mi ritengono un’attrice affidabile, contano su di me». Il mitico produttore David O. Selznick la chiama a Hollywood per farne una star anche oltreoceano in “Il caso Paradine” di Hitchcock e “Il terzo uomo”, accanto a Orson Welles.
«Per me Anna di “Il terzo uomo” è il personaggio che la rispecchia meglio: aveva l’aspetto di una donna algida, di origini nobili, ma ha sofferto molto», dice Pierpaolo De Mejo. «Sentivo in lei una profonda malinconia, celata però dietro la voglia di sdrammatizzare. Ripeteva sempre: “Nessuno ha mai capito che io sarei stata una grande attrice comica”».
In realtà, Alida Valli ha sperimentato molto. Lascia l’ingranaggio di Hollywood perché si sente una “schiava pagata” e in Italia la scelgono i più grandi, Visconti per “Senso” e Antonioni per “Il grido”. A quarant’anni si reinventa debuttando a teatro e nel cinema francese, infine scommette sui giovani talenti degli anni ’70, Pasolini, Bertolucci (Valli considerava “La strategia del ragno” il film preferito della sua carriera), Argento. Il film documentario si chiude col nipote Pierpaolo che torna a Pola, alla ricerca della casa natale della nonna. Alida, invece, non aveva più voluto tornare nella sua città, che le risvegliava il dolore per la morte del padre. «Non mi sento fortunata per non aver vissuto l’esodo e la confisca dei beni», scriveva nel suo diario. «Seppur lontana, soffrivo con loro». —
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