Umberto Piersanti vince nel nome di Saba: «Entrambi innamorati delle cose della vita»
TRIESTE Pochi giorni fa ha compiuto il suo ottantesimo compleanno, Umberto Piersanti, poeta delle cose ma poeta anche della meraviglia e di una natura che, se pur crudele, cerca disperatamente l’armonia. L’autore marchigiano, presidente del Centro mondiale della poesia Giacomo Leopardi e candidato al Nobel nel 2005, ha vinto la prima edizione del Premio Umberto Saba, promosso dalla Regione, dal Comune, da Lets Letteratura di Trieste in collaborazione con Pordenonelegge. Così a cento anni dalla prima pubblicazione di Saba e nella giornata mondiale della poesia – il 21 marzo – si svolgerà la celebrazione: «Rigorosamente on line con un video che racconterà la storia di Piersanti, ma anche la città di Saba», ha detto Gian Mario Villalta, tra i giurati del riconoscimento con Roberto Galaverni, Franca Mancinelli, Antonio Riccardi e la presidenza di Claudio Grisancich, che di Piersanti ha ricordato l’elemento in comune con il poeta triestino: l’onestà del dettato.
L’annuncio del vincitore è stato dato ieri, durante una conferenza stampa in cui sono intervenute tutte le autorità politiche. Se per Massimiliano Fedriga il premio ha il merito di avvicinare un genere poco conosciuto ai giovani, per gli assessori Tiziana Gibelli, Giorgio Rossi e Serena Tonel il Premio Saba non può che esaltare la naturale inclinazione di Trieste quale città letteraria. Piersanti vince con l’ultima raccolta, “Campi di ostinato amore”, edita da La nave di Teseo, una silloge di chiara matrice lirica.
Lei parla spesso della sua Urbino, ma va detto che conosce molto bene anche Trieste.
«La conoscevo prima ancora di visitarla. Avevo una ragazza triestina che mi parlava del Carso e dello scotano, una pianta balcanica di cui ha scritto Scipio Slataper e di cui poi ho parlato anch’io. C’è inoltre un mio vecchio testo, “Natale in Istria”. Feci un bellissimo Natale a Trieste, ospite di amici con cui spesso facevamo stupende gite oltre confine, quindi anche da un punto di vista vitale sono molto legato alla vostra città».
Tra l’altro era molto amico di un grande poeta triestino dimenticato, Fabio Doplicher...
«Sicuramente. Lo invitai al Festival poetico di Urbino nel 1977. Siamo diventati subito amici e abbiamo organizzato molti reading. Fabio aveva ideato anche delle antologie, che poi abbiamo firmato insieme, aveva inventato una casa editrice e una rivista che si chiamava “Stilb”, nome scientifico preso a prestito da suo fratello, il grande fisico Sergio Doplicher. Per me è stata un’amicizia importante, quando ho curato dei documentari televisivi per quattro grandi poeti, oltre a Luzi, Volponi e Scataglini ho introdotto Doplicher. In quel video si evidenzia la sua poetica, sempre in bilico tra il golfo e il teatro».
Qual è il legame che sente con Saba?
«Ho in comune il fare delle poesie come delle vicende, il racconto, il movimento, lo sguardo attorno alle cose. Come lui ho una patria poetica precisa, per Saba: Trieste e il mare. Per me: le Cesane e Urbino. Entrambi siamo innamorati delle cose della vita. Non appartengo alle categorie novecentesche dell’avanguardia o del grande stile, casomai sono legato a un quotidiano lirico. La mia poetica quindi, che dà spazio alla tensione lirica, alle vicende, alle dimensioni affettive del vivere, mi pare piuttosto sabiana».
Sua è una perfetta definizione dell’infanzia: “la stagione / più tenace /e ogni altra / offusca / e quasi oscura”. Cosa ci restituisce?
«Per me è la stagione di un altro mondo, che non contrappongo a quello di oggi in termini di autenticità. Le racconto un piccolo aneddoto. C’era un ragazzino che mi stava molto antipatico, anche perché all’asilo mangiava vicino alla bambina che mi piaceva. Eppure quando mi abbracciò per salutarmi perché i suoi si trasferivano a Faenza, io sentii un tuffo al cuore. Voglio dire che l’infanzia è lo spazio di esperienze fondamentali, come questa: tutto ciò che perdiamo irrimediabilmente non può che coinvolgerci e commuoverci. E la stessa infanzia è un mondo irrimediabilmente perduto».
Nei suoi testi c’è anche un senso di solitudine che raggiunge l’apice nelle poesie dedicate a Jacopo, suo figlio, colpito da una grave forma di autismo. Qual è il legame tra Jacopo e la poesia?
«All’inizio non volevo parlare di Jacopo. Poi ho capito che un poeta non può ignorare ciò che gli sta dentro. Da bambino Jacopo apparteneva a una dimensione mitica, ma ora Jacopo è grande, ha 34 anni, non ti fa dormire la notte, ora Jacopo mi appartiene completamente. È un elemento di fondo della mia poesia, un dolore ma anche una presenza che ho fatto mia fino in fondo, non so se l’ho accettata. La poesia? Forse non allevia questa sofferenza, ma so che è necessario scriverla, anche se non voglio sia esclusiva perché naturalmente non sono solo il poeta di Jacopo».
Il presente e il suo smarrimento compare in “Primavera triste”, dove allude alla pandemia. Come ha vissuto questa esperienza?
«Con paura, sono contento di avere fatto il vaccino. È peggio di una prigione perché c’è addirittura il timore di toccare le cose. Amo la solitudine, ma questa non è una solitudine ma un assedio fatto dagli ultra corpi. Non sono credente ma del cristianesimo apprezzo un messaggio: la vita prima di tutto. Le poesie dedicate alla pandemia evocano la vita che lotta, un urlo di rabbia contro l’attacco alla nostra specie perché io amo disperatamente la vita. Leopardi diceva “funesto a chi nasce il dì natale”, io che in molte cose sono leopardiano, nel mio precedente libro ho concluso dicendo che la nascita, invece, è sempre un dono». —
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