Truman Capote lo scrittore ucciso da droga e gossip

di Roberto Bertinetti
A otto anni era già attivo omossessuale, a dodici alcolizzato, a sedici scrittore, a ventiquattro famoso, a quaranta miliardario, a cinquanta un rottame sotto il profilo fisico e mentale.
Per tutta la vita, conclusasi nel 1984, Truman Capote ha bruciato le tappe. Con questa strategia si è costruito il cliché dell'esibizionista, del press-agent del proprio personaggio come conferma George Plimpton nella biografia che gli ha dedicato ("Capote", Garzanti, pagg. 462 pagine, euro 29,00). Piccolo ma coordinatissimo nei movimenti, con una vocina prepuberale che non lo avrebbe mai abbandonato, mise presto a frutto l'effetto prodotto da una immagine poco convenzionale incantando i fotografi di "Life" che nel 1947 battevano l'America alla ricerca di nuovi Hemingway. Fu proprio grazie al servizio uscito sulla rivista se l'anno successivo poteva veder pubblicato "Altre voci, altre stanze", romanzo gotico-barocco-sudista accolto con favore dal pubblico e dalla critica.
Capote aveva un'altissima opinione di se stesso, si considerava il Proust statunitense. Diceva: «Forse non sono intelligente e colto come era lui. Tuttavia il mio occhio è buono quanto il suo».
Il problema sta nel fatto che ottenne risultati diversi rispetto a Proust. Se infatti lo scrittore francese si chiuse volontariamente in una stanza foderata di sughero per comporre la "Recherche", Capote fu scacciato dai salotti e andò a rifugiarsi in una clinica per smaltire gli effetti di cocaina, alcol e tranquillanti. Quando morì, a sessant'anni, Gore Vidal, caustico, commentò: «Saggia mossa per favorire la sua carriera». Molto tempo prima la coetanea e amica Harper Lee ritraendolo in un personaggio di "Il buio oltre la siepe" lo aveva definito "un mago Merlino formato tascabile, con una testa che brulicava di bizzarre fantasie".
A dispetto delle perfidie dei colleghi, resta tuttavia un grande della letteratura Usa del secolo scorso. Per due fondamentali motivi: è riuscito a inventare un nuovo tipo di narrativa, il romanzo-documento, che racconta una storia vera prendendo a modello la cronaca (il capolavoro è "A sangue freddo", minuziosa ricostruzione di un delitto avvenuto nel Kansas) e ha offerto dignità artistica al reportage giornalistico lavorando per riviste prestigiose come "Vogue" o "The New Yorker".
Per lui, confermano i critici, non esiste una separazione tra la prosa d'occasione e l'impegno creativo. La spinta che lo anima è sempre la stessa: trovare la via più efficace per mettere a fuoco i segreti dell'interlocutore che ha di fronte (accade nei ritratti e nelle interviste) o del personaggio preso dalla realtà che vuole portare sulla pagina (è quello che accade, appunto, in "A sangue freddo"). «Il segreto dell'arte di intervistare, perché si tratta davvero di un'arte, è far in modo che l'altro pensi che sia lui a intervistarti. - sosteneva - Tu cominci a raccontargli di te, e piano piano tessi la tua rete finché l'altro non ti racconta tutto di sé». Introducendo "Musica per camaleonti" precisa: «Un giorno mi misi a scrivere, ignorando di essermi . legato a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta va usata, in particolare per l'autoflagellazione».
Durante gli anni cinquanta e sessanta, quando i salotti di Park Avenue, a New York, erano pieni di giovani provinciali alla ricerca del successo, Capote, inquieto folletto omosessuale, recitava la parte del protagonista assoluto. Le donne dell'alta società lo adoravano, e lui aveva con loro strettissimi rapporti: «Avrei potuto avere tutte le signore del mondo, dalla Garbo alla Dietrich perché mi hanno sempre amato. - confidò a un amico - L'unica cosa che non ho mai capito è come si possa andare a letto con una donna. E così noioso».
Tra i pochi che non sedusse ci fu William Faulkner. Una volta riuscì a sedergli accanto in taxi e, convinto di ingraziarselo, prese a parlargli male di Hemingway. Faulkner rimase glaciale e quindi replicò con freddezza: «Giovanotto, non ho letto l'ultimo libro di Hemingway e può anche non essere il suo migliore. Ma certamente sarà scritto molto bene come i precedenti».
Il punto di svolta della sua vita e della sua carriera fu il 1975, quando sulla rivista "Esquire" apparvero tre capitoli di "Preghiere esaudite", un romanzo su quell'ambiente mondano che lo aveva eletto a confidente, schiudendo per lui segreti gelosamente custoditi. In pochi giorni si scatenò una vera e propria baraonda, perché le affermazioni di Capote erano davvero incandescenti.
Qualche esempio? Jacqueline Kennedy e la sorella Lee Radziwill venivano definite «la più bella coppia di geishe occidentali», la mecenate Peggy Guggenheim «una vecchia con l'orrenda abitudine di digrignare i denti falsi, innamorata dello scimmiesco Samuel Beckett», Tennessee Williams «un allegro ubriacone che affitta ragazzini per le ore pomeridiane».
Il tutto era narrato in prima persona da J. P. Jones, massaggiatore, gigolò, impiegato in una agenzia di prostituzione per "clienti dai gusti speciali", evidente alter ego dello stesso autore.
In poche ore venne bandito dalle case della Fifth Avenue, escluso da ogni festa e le sue telefonate non ricevettero risposta. Capote non sarebbe più tornato dalla Siberia sociale in cui fu spedito per una gravissima colpa: aver dimenticato la differenza che passa tra la parola sussurrata all'orecchio e quella fissata sulla pagina.
«Da allora - ha rilevato Alberto Arbasino - precipitò rapidamente verso una morte squallida, secondo il tragico pattern del crack-up dei migliori scrittori americani, da Scott Fitzgerald a Hemingway a Kerouac». Si spense all'improvviso, a sessant'anni, nella casa californiana di un'amica, distrutto dall'esagerato consumo di vodka e cocaina. Il funerale, ricorda il biografo, fu tragicomico per la concomitanza di quello di un grande produttore di Hollywood, e quindi la divisione obbligata di mogli e mariti: i divi da quest'ultimo, le moglie da Capote, in memoria delle chiacchiere con cui in passato aveva, come dicono negli Usa, "sung for his supper", ovvero giustificato l'invito a cena o in piscina.
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