Trieste, una città sospesa fra terra e mare
TRIESTE «Si eleva ad anfiteatro sulla groppa di una montagna i cui piedi sono bagnati dal mare». Così si presentava Trieste al viaggiatore ottocentesco che, giungendo dalla strada di Vienna, si affacciava finalmente al mare da quel fantastico balcone naturale che è Opicina. La descrizione è di Joseph Lavallée nel suo celebre “Vojage pittoresque et historique de l’Istrie et Dalmatie” (1802).
“Non avrei mai immaginato un simile spettacolo. Da quel deserto di pietre mi si presentava la vista del mare Adriatico che cinge laggiù, con i suoi flutti dorati dal sole, i ripidi monti”, racconta Friederich Schinkel (1805), celebre architetto austriaco noto come ‘l’uomo che inventò Berlino’. Immediatamente accogliente alla vista, costruita con criteri di razionalità e gusto moderni, Trieste si presentava a chi l’avesse guardata dal ciglione carsico come una mappa prospettica, facilmente descritta, immediata nelle sue peculiarità naturalistiche e urbanistiche, “con le sue strade chiare, larghe e dritte”, nettamente divisa tra terra e mare. Un punto di vista affascinante per ritrovare, indossando le lenti di un viaggiatore ottocentesco, una Trieste passata eppure ancor oggi viva.
“Sino al principio del secolo XVIII Trieste era città murata con sei porte”, scriveva nel 1830 il conte Girolamo Agapito, autore della “Descrizione della fedelissima città e porto-franco di Trieste”, ricordando che nel 1719 Trieste fu dichiarata porto franco. La città inziava la sua rapida ascesa come porto dell’Impero, le mura e quattro delle sei porte vennero demolite e “la pingua esca degli abbondanti guadagni manteneva la febbre del lavoro”.
Articolata tra città Teresiana e i due borghi Franceschino e Giuseppino oltre la città vecchia che ricomprendeva piazza Grande, l’odierna piazza Unità, “ora Trieste dividesi in città vecchia e città nuova”. E l’ordine delle guide rispecchiava quasi sempre l’ordine reale del viaggiatore, con la discesa verso Trieste e la visita chiara e consecutiva di città nuova e città vecchia. In città non arrivavano più solo nobili da Grand Tour alla ricerca del pittoresco, ma négociant o militaire, più interessati agli aspetti prosaici e materiali dei luoghi visitati.
Nella città nuova, impostata con le sue linee ortogonali e i suoi ampi magazzini, ferveva l’attività mercantile. Nel Borgo Teresiano l’aria era impregnata di odori penetranti. Agrumi maturi, salamoie, frutti fermentati, pepe. Si tingeva il caffè – ricorda Giuseppe Caprin ne “I nostri nonni”– si scaricava lo zucchero dell’Avana, si calpestava l’uva di Samos e della Sicilia per comprimerla nelle botti. In porto pappagalli dai colori variopinti – apprezzato esotismo da salotto - venivano scaricati dai velieri per essere venduti in piazza della Borsa insieme a tartarughe nostrane destinate a impreziosire i consommé delle cucine alto-borghesi. Le industrie nella città nuova si moltiplicavano: fabbriche di rosoli, di cordaggi, saponi, ancore, concia per le pelli, raffinerie di zuccheri, cremor tartaro, distillerie. Eppoi produzioni di pettini, candele, cioccolate e pianoforti. Allora il Canal Grande era ornato da un filare di gelsi sulle due rive. La piazza di Ponterosso serviva da stazione alle vetture e arena per pubblici spettacoli, fossero teatri di burattini o serragli di belve.
All’inizio del nuovo secolo Trieste assunse il caratteristico volto neoclassico, arricchito dalle opere di Pietro Nobile, Matteo Pertsch, Antonio Mollari e Antonio Buttazzoni. In occasione della fausta ricorrenza della visita a Trieste nel 1844 dell'Imperatore austriaco Francesco I venne edita la guida “Trieste in miniatura”: le migliori opere si stavano terminando, imponenti: la chiesa di San Nicolò dei Greci e il palazzo Carciotti sulle Rive. Di questo Matteo di Bevilaqua nella sua breve guida (1820) dice: “l’Architettura di questo bel palazzo è degna d’esser veduta, perchè adorna di più statue e colonne”. Eppoi il Tergesteo, il “colossale edifizio”, secondo Agapito, e il Teatro Verdi, allora Teatro Grande “d’ordine jonico moderno”.
In Piazza Grande a inizio Ottocento sfilava la moda: gioventù con cappello tondo a tese alla prussiana, la redingote lunga, stivali russi, panciotti inglesi. Nel 1806 – ricorda il Caprin – i moscardini si pettinavano a ‘refolo di bora’, con un ciuffo di capelli lunghi sull’orecchio sinistro. Per le signore lungo abito a vita stretta e petto sporgente e gioielli a profusione, con catene a più volute attorno al collo, anelli ad ogni dito, orecchini a tre pendenti e medaglioni impreziositi da diamanti e perle. Quanto ai cappelli, erano enormi, con tanto di armature in stecche di legno e di balena. E i bambini – conclude il Caprin - a nove anni uscivano in tuba, marsina e cravattone, “sembravano tanti pupazzetti dei nonni”.
La conoscenza della città per il viaggiatore prevedeva una visita alla Pubblica Biblioteca Arcadica Triestina, nata nel 1793 dall’Arcadia Romano–Sonziaca: Divenne Biblioteca Civica nel 1796, dopo che nel 1795 gli Arcadi donarono al Comune la loro biblioteca di circa quattromila volumi e con decreto dell’Imperatore d’Austria la proposta di dono venne accettata a condizione che “lo scopo di questa biblioteca, ed il futuro acquisto di libri debbano essere principalmente diritti a formare l’intelletto della gioventù dello stato mercantile, ed procurare gli ajuti per l’estensione di quelle cognizioni, che conducono all’ingrandimento dell’industria”.
Allora non mancavano i musei numismatici, puntualmente descritti nelle “Notizie storiche di Trieste. Guida per la città” di Giovannina Bandelli (1851). “Lo studio delle cose antiche il quale mostrando la perfezione cui giunsero le arti presso gli antichi – scriveva - è guida ed ammaestramento a ciò che fare potrebbero gli odierni”. Con l’avanzare del secolo le guide iniziarono a dedicare più attenzione alla parte antica della città, e il progredire degli scavi accentuò del gusto archeologico. Si saliva dunque sul colle di San Giusto per apprezzarne le memorie antiquarie.
Una rappresentazione della città sotto il profilo turistico, sociale ed economico arrivò dalla guida, in quattro lingue, “Tre giorni a Trieste” (1844), curata da quattro uomini d'impresa e di cultura - il medico e scrittore Saul Formiggini, lo storico e giurista Pietro Kandler, il barone Pasquale Revoltella e il barone, avvocato e consigliere comunale Giovan Battista Scrinzi: "adorno d'incisione d'intagli", il volumetto era destinato ai delegati di un congresso che chiamò da tutto l'Impero centinaia di delegati dalla Società delle Ferrate, la varie imprese che gestivano i collegamenti ferroviari dell'Austria-Ungheria. Nel 1857 si sarebbe aperta la nuova linea ferroviaria che collegava Trieste a Vienna.
Rappresentazioni, quelle delle guide ottocentesche, che permettono di apprezzare con occhio curioso l’evoluzione di Trieste, ma anche dei gusti, delle sensibilità su cui si è sedimentata la visione moderna della città che si stende, per concludere con le parole del Kollmann nella sua guida del 1808, “alle sponde dell’ondoso Adriatico, un gentile insieme in questa maestosa ampiezza”. —
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