Trieste e Sándor Márai scrittore dell’Adriatico

Il cantore dell’ultima Mitteleuropa frequentò la città e ne parlò nei suoi scritti. Tra questi “L’isola”, libro di viaggio e introspezione ora ripubblicato da Adelphi

Elsa Nemec
Sándor Márai
Sándor Márai

TRIESTE Ventisei anni fa, nel 1998, Adelphi pubblicava la traduzione italiana di “Le braci” di Sándor Márai, scrittore, poeta e giornalista, che nei suoi numerosi romanzi in lingua ungherese descrisse il malinconico disfacimento della Mitteleuropa. Nato nel 1900 nell’odierna Kosice, in Slovacchia, dopo lo smembramento dell’Impero austro-ungarico, Márai si trasferì nel '28 a Budapest, che abbandonò durante il regime di Horthy per andare in volontario esilio a Berlino e a Parigi, e poi tornare nel 1945. L’intellighenzia del nuovo regime comunista bollò però le sue opere come «realismo borghese» e nel ’48 Márai lasciò per sempre l’Ungheria per stabilirsi – dopo soggiorni in Svizzera e in Italia – negli Stati Uniti, lì si tolse la vita con un colpo di rivoltella nel 1989.

La pubblicazione di “Le braci” fu non solo la scoperta di un libro in cui linguaggio, immagini, tensioni emotive si fondevano in una rara bellezza, ma anche di uno straordinario autore. Da allora, Adelphi ha proposto ai lettori italiani una ventina di titoli che coprono gran parte della vasta produzione di Sándor Márai, che va dalla narrativa al genere diaristico-autobiografico.

In quest’ultimo filone si potrebbe inserire un titolo uscito nel 2007 e ora riproposto nella collana Gli Adelphi: “L'Isola” (traduzione di Laura Sgarioto, pp. 177, 12 euro). Un romanzo breve, la storia di Victor Henrik Askenasi, docente di letteratura greca e lingue anatoliche all'Ecole Pratique des Haute Etudes che, in fuga dai suoi demoni, intraprende un'ominosa vacanza verso il sud. Nel romanzo sono condensati i temi che hanno ossessionato Márai per tutta la vita e che, come un filo rosso, ne percorrono tutta l'opera. Ovvero il continuo interrogarsi sul “segreto”, su questioni cruciali, quali la felicità, la verità, l'amore, la morte, lo scopo della vita. Scriveva Márai già in “Braci”: «Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l'intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alla fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza». Il protagonista de “L'isola” arriva a Ragusa (l'odierna Dubrovnik) da Parigi, in fuga da un matrimonio fallito e da una triennale convivenza con una ballerina russa. Raggiunta in treno Trieste vi s'imbarca su una nave a vapore diretta a Spalato. «L'aspro paesaggio del Carso», «enfaticamente desolato, con le sue cime brulle e i suoi dirupi» gli fa «venire in mente qualcuno che urla a squarciagola cose senza senso». È in realtà diretto in Grecia, ma non vi arriverà mai. (Peraltro, Trieste, che Márai conobbe nel corso delle sue peregrinazioni, è anche il luogo fatidico dove si manifestano i primi sintomi della malattia mortale del musicista Z., protagonista del romanzo del 1946 “La sorella”). Forse sulla costa dalmata il professore ungherese troverà risposte alle domande che le donne della sua vita non sono state in grado di dargli: «Perché di fatto, non esiste l'appagamento?» Perché il corpo, all'ultimo momento tace, resta «elusivo»? In lunghe, solipsistiche elucubrazioni Askenasi cerca la parola che «mancava sempre», «l'ultima, l'unica parola, la risposta alle domande che i corpi si rivolgono a vicenda», prima in un incontro occasionale in mediocre hotel con vista sugli spalti di Ragusa e poi, in fuga, sull'isola di Croma. Forse la verità tanto agognata è oltre, nel crimine e nella follia. —

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