Tric e trac: anche a Trieste la matematica cambia il teatro
di Roberto Canziani
Tric, trac, e patatrac. Arriva la Befana. Ma l'eco dei botti e dei mortaretti che in tutta Italia hanno accompagnato le feste è destinato a prolungarsi, almeno per i teatri, fino alla fine del mese. Uno scoppiettio di inquietudini accompagnerà le maggiori istituzioni teatrali alla scadenza del 31 gennaio quando - rischiando tric, trac o patatrac - ognuna dovrà decidere quale sia il ruolo da svolgere nel nuovo sistema, che un decreto ministeriale dello scorso luglio ha previsto per il teatro che verrà. O perlomeno, per i tre anni venturi.
Teatro nazionale o di “rilevante interesse culturale”, ovvero “tric”? Centro oppure organismo di programmazione teatrale? Non è facile districarsi tra le nuove denominazioni che il Mibact ha individuato, dovendo stabilire chi aiutare attraverso lo stanziamento di risorse pubbliche (il famoso Fus), fra tutti coloro che in Italia fanno spettacolo. Gli stessi esperti dichiarano di non avere idee chiare in merito. Figurarsi quanti, dando aria alla bocca, si sono espressi negli scorsi mesi prospettando opportunità e vantaggi, fusioni o associazioni d'imprese. Nella nostra regione ha tenuto banco per alcuni mesi la discussione se il triestino Rossetti e l'udinese CSS dovessero convolare a nozze (di interesse, come si usa dire) per candidarsi “teatro nazionale”. E la politica, soprattutto, si è espressa con risonanti prese di posizione. Chiacchiere, fatte spesso senza aver nemmeno dato un'occhiata all'imperioso decreto.
A leggerlo bene, invece, si capisce che è un decreto ambiguo e manchevole, perché non esprime un'idea di riforma o ristrutturazione, ma si limita a riprendere in mano la contabilità del settore, con il proposito di tagliare i rami, se non proprio secchi, meno prosperosi. Tanto è vero che le etichette, tra cui l'oramai famigerata sigla “tric”, che sta tormentando direttori di teatro e organizzatori, non ha dietro a sé nessun contenuto o profilo culturale. Ma solo parametri quantitativi: numero di repliche, giornate lavorative, collocazione e capienza delle sale.
Da qui le difficoltà e il tormento. E il moltiplicarsi delle interpretazioni. Che cosa dovrebbe essere, o meglio cosa dovrebbe fare un “teatro nazionale”? Quale la sua “mission”? E quanti dovrebbero essere i “nazionali” in Italia? Pochi e selezionati, come sembra suggerire il decreto, o non piuttosto tanti quanti sono le regioni, come invece vorrebbero i campanili locali. Non lo sa nessuno.
In che cosa consisterebbe poi il “rilevante interesse culturale” dei cosiddetti “tric” (oltre alle previste 160 giornate di repliche di spettacoli prodotti in proprio, e alle 6000 giornate lavorative all'anno)? Scorrendo, ad esempio, il cartellone del Rossetti nelle passate stagioni è davvero difficile sostenere che quello culturale sia stato l'interesse più rilevante. Eppure, proprio in quel settore il Rossetti ora intende concorrere. E si potrebbe chiacchierare a lungo se sia più “culturale” il ruolo che svolge La Contrada con la sua “mission” di teatro municipale e dialettale, oppure quello del Teatro Sloveno rispetto alla lingua di minoranza, o ancora quello del CSS, più rivolto all'esplorazione del panorama dello spettacolo internazionale. Certo l'esistenza di 4 “tric” in una regione piccola come il Friuli Venezia Giulia, è assai difficile da immaginare. La “copertura” economica offerta dallo stato italiano non è un caldo, ampio, confortevole piumone, ma un piccolo plaid, abbastanza consunto. C'è il rischio che vada in pezzi. E allora - riflette chi la sa lunga – meglio affidarsi alle raccomandazioni della politica. Che qualche risultato sembra sempre ottenere.
Il problema è che la politica, o come si dovrebbe meglio dire, il legislatore, non ha avuto il coraggio o la possibilità di definire una vera riforma del teatro, e si è messo solo nei panni di scrupoloso amministratore. Cosa che dovranno fare, a cominciare dal febbraio prossimo, anche i nostri teatri, modulando la loro produzione e la programmazione sulla base dei requisiti, molto impegnativi, che il decreto impone. Alle prese con i conti degli ultimi musical proposti in cartellone (il recente “La Bella e la Bestia” sembra aver ulteriormente aggravato il bilancio), il direttore artistico del Rossetti, Franco Però, sostiene che “una rimodulazione è sicuramente necessaria: a cominciare da nuove proposte produttive, dall’idea di costruire un nucleo di attori stabile e un rapporto diverso con gli altri teatri della città e della regione. Non va tuttavia trascurata la vocazione musicale di questa città”. Sorprese allora, nei prossimi cartelloni, come nelle calze della Befana, ce ne potrebbero essere. E parecchie..
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