Tre primi attori in “Copenaghen”: «Siamo gli ultimi elefanti»

Al Rossetti Massimo Popolizio con Umberto Orsini e Giuliana Lojodice è protagonista del testo di Michael Frayn: il rapporto tra scienza ed etica attuale dopo vent’anni

TRIESTE Torna a Trieste al Rossetti, ospite martedì 18 e mercoledì 19 dicembre del cartellone "altri percorsi" dello Stabile regionale, lo spettacolo "Copenaghen". Il capolavoro di Michael Frayn, nella regia di Mauro Avogadro, è interpretato da una Compagnia teatrale d’eccezione: sul palco infatti ritroviamo Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice, applauditi fin dall'esordio nel 1999. Anche ora, dopo quasi vent'anni, lo spettacolo rimane sempre attuale e più che mai legato a Trieste che nel 2020 diventerà Capitale Europea della Scienza. "Copenaghen" continua ad affascinare il pubblico che diventa testimone di un appassionante confronto etico e scientifico sul tema della bomba atomica.

Qual è il segreto di un tale successo?

«È uno spettacolo un po' furbo, dove si parla di etica scientifica, di spionaggio, di rapporti umani: Frayn è un commediografo pratico che non ne ha mai sbagliata una», spiega Massimo Popolizio. «In realtà si tratta di una giusta commistione di attori diversi e di età differenti: si pensi che io ho 57 anni e sono considerato ancora come l'attore giovane! Non si vedono spesso tre primi attori così, in scena tutti insieme. Lo spettacolo inoltre ha una sua forza recitativa perché è detto con grande veemenza verso il pubblico ed è recitato con molta passione e generosità. Alla fine molto spesso ci dicono che le cose vengono capite non tanto per il significato in sé, ma per il modo in cui vengono rese, con un certo "furore scientifico": la passione degli uomini che interpretiamo passa attraverso il modo in cui noi recitiamo».

Com'è cambiato lo spettacolo dal suo esordio?

«Abbiamo diversificato delle cose negli anni, aggiungendo dei video, confezionandolo meglio da un punto di vista visivo: abbiamo "limato" delle parti tanto da arrivare a un nucleo di un'ora e 48 minuti compreso l'intervallo (mentre in Inghilterra lo spettacolo durava più di tre ore), che è la misura giusta per l'attenzione del pubblico di oggi. Abbiamo tagliato tanto anche perché il testo è impegnativo e l'attenzione richiesta per seguire certi temi scientifici è molto alta. Non c'è una vera storia: siamo costantemente in scena in tre, con tre sedie, in quella che potrebbe essere un'aula, senza musiche, effetti o particolari scenografie. È una prova tutta attoriale, affidata esclusivamente al modo in cui si è presenti in scena».

Spesso dice che come tipologia di attore si sente in via di estinzione...

«Essere un panda è una prerogativa di pochi! In questo paese è come se fosse stata passata una mano di acquaragia che ha fatto dimenticare il modo di fare teatro: si fanno spettacoli puerili, semplicistici, dimenticando quello che eravamo. Per ora esistiamo e resistiamo: d'altronde si paga per vedere le ultime giraffe e gli ultimi elefanti!».

Cosa consiglia a chi vuole fare questo mestiere?

«Per esperienza, tutti credono che il teatro sia qualcosa che non è. Le persone che sono interessate a questo percorso devono fare certamente una scuola di teatro, l'unico posto dove puoi capire se davvero vuoi fare questo lavoro. Il teatro lo conosci nel momento in cui lo fai. Eviterei quelle strade che portano a vivere il teatro come esperienza di vita e non come mestiere: per potersi arrogare il diritto di esprimersi bisogna aver studiato e soprattutto bisogna imparare dagli altri...».

Lei da chi ha imparato?

«Ho avuto la fortuna, con Luca Ronconi, di lavorare con tutti: mi sono rapportato con Mariangela Melato, Umberto Orsini, Corrado Pani, coi miei compagni di accademia, colleghi più giovani e più vecchi. E ho capito una cosa importantissima: il teatro è un'esperienza trasversale, non generazionale».

“Copenaghen” rappresenta un irrinunciabile momento di discussione e conoscenza e proprio per questo domani alle 17.30 alla sala Bartoli si terrà un incontro con Umberto Orsini, il professor Sergio Fantoni e il giornalista scientifico Fabio Pagan nell’ambito di ProESOF. —
 

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