Tra Muggia e Grignano le tracce dei Templari cavalieri salutisti che assistevano i pellegrini

la recensione
Custodivano davvero il Santo Graal, la coppa del sapere, il calice usato da Gesù nell’ultima cena? Erano davvero iniziati, agenti in terra dei maestri occulti, e destinati a diventarlo essi stessi, dopo un mistico apprendistato e un’austera ascesi? Realtà e leggenda, prosa e poesia si confondono da sempre nella vicenda dei Cavalieri Templari. Per secoli l’Europa li ha esaltati e demonizzati, invocati e maledetti e poche istituzioni hanno fatto scorrere più inchiostro e più veleno. Nati con le crociate, quando si impegnarono a difendere i pellegrini dai briganti e dai predatori, a proteggere le strade e a fungere da cavalieri del re sovrano, vissero un boom di nuovi adepti dopo il concilio di Troyes del 1128 e grazie al fondamentale sostegno di Bernardo da Chiaravalle, campione del monachesimo medievale. Per almeno due secoli furono i protagonisti delle vicende in Terrasanta; perfettamente addestrati, avevano le armi più moderne e i cavalli più veloci. A poco a poco cominciarono ad accumulare ricchezze. I cavalieri infatti donavano tutti i loro beni all’ordine ed erano esonerati, per disposizione papale, dal pagamento delle imposte; le loro comunità divennero centri di produzione agricola, e con quelli ricavavano pingui guadagni. A un certo punto divennero talmente potenti che la gestione delle ricchezze li occupava più della guerra agli infedeli. Ricchezze che fecero gola al re francese Filippo il Bello, che accusò l’ultimo gran maestro, Jacques de Molay, di eresia. Lo fece arrestare e bruciare sul rogo e il papa Clemente V, messo sul trono proprio da Filippo, nel 1312 soppresse l’Ordine.
E di loro oggi si sa poco, visto che documenti scritti non ce ne sono. Tracce della loro presenza e dei loro insediamenti invece se ne trovano un po’ dappertutto, sempre al limite tra realtà e leggenda. Anche a Trieste. Come dimostra l’indagine di Dino Cafagna “I Templari a Trieste” (Luglio editore, 232 pagg., 16 euro), titolo in realtà un po’ fuorviante perché, come ammette lo stesso autore, prove inconfutabili della loro presenza in città non ce ne sono. Mentre è probabile che questi cavalieri metà monaci e metà guerrieri, abbiano fondato nel circondario strutture per ospitare pellegrini e viandanti. Muggia ad esempio è stata un centro templare riconosciuto. Segni se ne trovano in diversi punti, nel centro della cittadina c’è una chiesa che la tradizione popolare ha tramandato col nome “dei Templari”, e qualche anno fa il comune rivierasco ha intitolato ai cavalieri una strada in località Noghere, anche grazie all’impegno di uno studioso locale come Franco Stener. Pare che l’interramento di queste aree paludose e il potenziamento delle saline della valle fosse dovuto proprio ai Templari.
Per i loro insediamenti i cavalieri sceglievano dei punti cruciali non solo per il passaggio di merci e di truppe militari, ma anche per il ristoro dei viandanti e dei pellegrini diretti in Terra Santa o altri santuari di devozione cristiana. Da Muggia si snodava la trafficatissima strada del sale, che risaliva la val Rosandra, toccava il castello di San Servolo e giungeva nel paese di Lokev, in Slovenia. Qui, a poca distanza da Basovizza, c’è ancora una cappella gotica che la tradizione vuole appartenuta a un insediamento templare. Mentre dalla parte opposta del circondario triestino, a Grignano, la presenza dei cavalieri è data quasi per certa per gli atti di un processo ai Templari. Documenti oggi perduti ma conservati fino alla fine dell’800 nell’archivio del monastero benedettino di Grignano, e che furono consultati dallo storico Luigi de Jenner. A Grignano c’era un hospitalia, un ricovero per pellegrini (oggi trasformato in villa privata), e un altro hospitalia poteva essere un edificio nella vicina Santa Croce. I segni tipici di un insediamento templare, un corso d’acqua accanto a una via di comunicazione, la presenza di una chiesa e di un edificio adibito a ricovero per i pellegrini, ricorrono inoltre nel caso della chiesa di San Giovanni e San Pelagio nel rione di San Giovanni, ricostruita completamente negli anni Cinquanta del secolo scorso. Quanto a Trieste, la città è come detto priva di testimonianze templari. C’è però una suggestiva ipotesi che investe il caso di Marco Ranfo, il nobile triestino cacciato dalla città per motivi rimasti sconosciuti, proprio nello stesso periodo in cui l’ordine venne sciolto dal papa. Ranfo era ricco e venne accusato di eresia, due indizi che hanno fatto avanzare l’ipotesi che fosse un templare caduto in disgrazia assieme a tutto l’ordine. Attorno alle vicende di questi monaci, soldati, banchieri e alchimisti la curiosità non smette insomma di accendersi, stimolata anche da spunti che li fanno sentire vicini a noi, come la grande cura che mettevano nella dieta. Furono infatti dei salutisti, vivevano a lungo, e curavano a tal punto l’igiene, oltre alla castità e alla povertà, che tra i loro obblighi c’era anche quello di lavarsi le mani prima di mangiare. —
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