Tortura e morte così la Serenissima faceva giustizia

Un frammento di una lettera ritrovata tra i capelli di un uomo assassinato dalla moglie e un lembo del vestito di re Luigi XVI recuperato subito dopo la sua decapitazione da una spia veneziana: sono alcuni degli insoliti reperti che sono visibili nella mostra “Venice Secrets. Crime and Justice” aperta a Palazzo Zaguri in Campo San Maurizio a Venezia sino al 1° maggio prossimo. Per gli amanti del “noir” la possibilità di vedere da vicino strumenti di tortura, macchine per la pena di morte, ma anche documenti originali usciti dai tribunali veneziani e della Santa Inquisizione, celle per i condannati e ambienti legati alla giustizia penale ai tempi della Serenissima Repubblica. Un percorso espositivo lungo cinque piani che porta il visitatore a rivivere per flash back narrativi la storia di Venezia sotto un profilo decisamente dark. Tra le antiche macchine di morte presenti in mostra anche la fallbret, una sorta di ghigliottina ante litteram utilizzata fino al 1500. Tra gli strumenti di tortura più utilizzati a Venezia fino al 1700 la sedia di fuoco a cui il condannato veniva legato: i suoi piedi cosparsi di grasso, venivano poggiati su una tavoletta sotto la quale erano posti carboni ardenti. A ogni domanda senza risposta la tavoletta veniva tolta.
Musiche, fragranze, illuminazioni a effetto, animazioni filmiche accompagnano il visitatore alla scoperta di segmenti storia della giustizia veneziana: dalla fedele ricostruzione della cella in cui fu rinchiuso Casanova a quella dell’Antico Teatro di Anatomia di Venezia dove venivano per lo più sezionati cadaveri di condannati a morte. In mostra anche alcuni falsi storici come la “Vergine di Norimberga” (un sarcofago foderato di aculei) spacciato per uno strumento di tortura medievale ed invece costruito nell’800 o ancora le cinture di castità, invenzioni del periodo vittoriano, imputate al Medioevo ed invece costruite ad hoc quando nell’800 imperava il puritanesimo.
Tra i percorsi della mostra anche la ricostruzione di alcune vicende storiche clamorose in tema di giustizia come quelle di Paolo Sarpi, della cortigiana Veronica Franco, di Giordano Bruno, del “Conte di Carmagnola” e del Doge Marin Falier, decapitato per alto tradimento. Attraverso documenti storici e reperti dell’Archivio di Stato di Venezia vengono proposte anche alcune storie di ordinaria giustizia come quella che vide protagonista la bella vedova, originaria di Sacile, Veneranda Porta che nel 1779 con la complicità del suo giovane amante, un cameriere di Udine, uccise a Venezia il marito e poi lo squartò gettandone i pezzi in canale e in alcuni pozzi. Ritrovati casualmente, i resti dell’uomo furono ricomposti dai Signori di Notte al Criminal e esposti perché qualcuno li riconoscesse. Tuttavia l’identificazione avvenne solo quando le autorità decisero di imbalsamare la testa per esporla su una picca: tra i capelli fu trovato infatti un “rolò”, un rotolino di carta sul quale si avvolgevano le ciocche per formare dei ricci. Per costruirlo era stata utilizzata una lettera che la vittima, Francesco Cestonaro, aveva scritto al fratello. Così gli inquirenti veneziani poterono velocemente risolvere il caso. Dopo un interrogatorio serrato, posta di fronte alla testa decapitata del marito, Veneranda Porta confessò. A nulla valse l’invocazione della legittima difesa per le angherie del marito, la donna fu condannata a morte per decapitazione insieme al suo amante che fu anche squartato. «La pena di morte a Venezia - spiega il curatore della mostra Davide Busato – era esemplare e particolarmente cruenta. Seguiva un rituale preciso e veniva sempre effettuata tra le due colonne di San Marco. Il condannato, portato lungo il Canal Grande in barca, durante il tragitto era torturato dal boia con una tenaglia arroventata, poi nei pressi di Santa Croce gli veniva tagliata la prima mano. Trascinato a coda di cavallo fino a San Marco gli veniva mozzata la seconda mano e infine la testa. Spesso il corpo veniva anche squartato e i quarti appesi pubblicamente. L'ultima esecuzione della Serenissima – conclude Busato - è del 1791: si tratta di un'impiccagione. In periodo medievale però si punivano gli assassini anche col rogo, mentre la Santa Inquisizione a Venezia quando operava preferiva l’annegamento eseguito di notte per evitare clamore e reazioni da parte della popolazione».
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