Tiziano Possamai studia gli spazi d’incoscienza virtuosa
Tiziano Possamai, filosofo. Con Pier Aldo Rovatti si era già occupato di counseling filosofico. È suo il libro “Consulenza filosofica e postmodernità” (Carocci, 2011). Si è dato alle pratiche per...

Tiziano Possamai, filosofo. Con Pier Aldo Rovatti si era già occupato di counseling filosofico. È suo il libro “Consulenza filosofica e postmodernità” (Carocci, 2011). Si è dato alle pratiche per quattro anni con un profilo critico piuttosto verticale: rovesciando alcune regole, cercando i paradossi. D’altra parte non si vede come uno sguardo filosofico potrebbe agire diversamente. Ora ci riprova in un nuovo campo di ricerca, collegato al primo effettivamente, ma più vocato a focalizzarsi su un aspetto specifico: l’inconscio, questo sconosciuto.
Ce ne parla nel suo ultimo
“Inconscio e ripetizione. La fabbrica della soggettività” (Meltemi Edizioni, pag. 190, euro 15,00)
. La novità di questi studi prevede, al contrario di Freud, anche la necessità di preservare l’inconscio, anziché tradurlo. «Ciò che emerge – dice Possamai – è innanzitutto l’impossibilità di portare a compimento il grande auspicio freudiano, e cioè quello di prosciugare il mare dell’inconscio», per la semplice ragione che non abbiamo a che fare con un mare interno ma con un oceano e un oceano non si può prosciugare. «Questa impossibilità però non va vista solo come un limite, ma anche come una necessità e una risorsa».
Se l’obiettivo della psicoanalisi è rendere conscio l’inconscio, Possamai ci mostra l’importanza del processo contrario, di saper tradurre il conscio in inconscio, di saper creare spazi d’incoscienza virtuosa, da custodire e ampliare: «Passa da questa capacità di “rimozione” ogni concreta possibilità di formazione, sviluppo, cura e trasformazione del soggetto, e di conseguenza anche di ogni civiltà».
Quindi il libro parla di un inconscio diverso da quello “pulsionale”, reso famoso da Freud. Alcuni lo chiamano inconscio cognitivo, il nostro filosofo preferisce chiamarlo “adattivo”. Ne fanno parte tutti gli automatismi (motori, cognitivi, emotivi) incorporati dall’individuo a partire dai suoi primi anni di vita e durante tutto il suo sviluppo grazie alla ripetizione, volontaria o involontaria, di determinate esperienze e situazioni.
Lo studio delle schematicità inconsce pare uno dei campi più promettenti delle scienze umane: «La centralità di questi studi deriva dal fatto che è ormai sempre più chiaro che queste schematicità stanno alla base, in bene e in male, di buona parte dei nostri modi di vedere e di agire nel mondo e che quindi bisogna inevitabilmente ripartire da qui se vogliamo cambiare i nostri modi di vedere e di agire nel mondo».
Ma quali sono le ricadute pratiche? Possono essere molteplici. E non solo di tipo clinico, anche etico e politico: «Penso per esempio alla questione, tanto dibattuta in questi anni, dell’identità di genere, o alla questione razziale, alle conflittualità interculturali e religiose, tutte problematiche che derivano da modalità storicamente situate e culturalmente circoscritte di leggere la realtà e di porsi nel mondo, e tuttavia proprio perché acquisite inconsciamente, vengono vissute dagli individui come naturali e universali, con tutte le conseguenze che questo può comportare a livello psicologico, etico e politico». Si tratta in qualche modo di rivalutare, se non rovesciare, la nostra cultura filosofica illuminista – dalla quale fuoriesce anche la psicoanalisi freudiana – e che ha sempre considerato il lato buio, non visibile, l’impensabile della nostra esperienza come qualcosa sotto sotto d’inferiore, di negativo, quando invece è proprio ciò che ha consentito a tale cultura di formarsi e di progredire. Ora pare che sia tempo di ridare un po’ di importanza all’“io”, subissato dall’inconscio: «L’inconscio ha preso le veci dell’io, e noi ora scopriamo di essere sconosciuti a noi stessi molto più di quanto non avessimo mai pensato prima. Ma anche che tale estraneità può essere la via per diventare migliori di quello che siamo».
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