Tito, il mimetico bolscevico altoborghese che visse nel secolo dei grandi dittatori
TRIESTE C’è un mondo sfolgorante che ruota intorno alla villa che Tito, il comunista che piace, si è fatto erigere nell’istriana isola di Brioni: Gina Lollobrigida, Burt Lancaster, Orson Wells, Sofia Loren, Liz Taylor, Josephine Baker, non disdegnano i suoi galà. Ad alcuni suoi collaboratori imbarazzati dal fatto che la faraonica residenza da 500 ospiti sia stata eretta da prigionieri, Tito replica: “Tutto quel che c’è di grande nella storia è stato costruito da schiavi”.
I sogni rivoluzionari millantati finiscono quasi sempre o nel sangue o nella prosaicità più meschina insegna Olivier Guez ne “Il secolo dei dittatori” (Neri Pozza, pagg. 507, euro 23). Un campionario di ventidue medaglioni, ritratti da studiosi, intellettuali, giornalisti di rango, concertati da Guez, critico e scrittore francese. La tesi, esposta nell’introduzione, è che la caccia al potere sia consustanziale alla storia e alla natura umana, ma nel XX secolo questo fenomeno ha raggiunto proporzioni inedite.
Tito è un esponente esemplare, da perseguitato a persecutore, di media caratura per ipocrisia e crudeltà. La Jugoslavia non gli sopravviverà di molto, ma lui si spegne placido nel suo letto, a 88 anni, riverito come statista. Passa dagli scarponi del combattente ai vezzi degni di una satrapia orientale, la divisa candida appuntata di decine di medaglie scelte, come una dama che si prepara alla soirée, tra le 16 jugoslave e le 99 straniere di cui è stato insignito. Poi gli eterni occhiali, l’abbronzatura ultravioletta, il girotondo di donne, l’anellone, il trafugamento di denaro, quadri e opere d’arte; le battute di caccia, lo yacht, il veliero. Tra i vari bolidi, la Rolls-Royce dono della regina Elisabetta che onorerà di una visita disertando il giorno delle esequie di Stalin, suo caro nemico, morto il 9 marzo 1953. Tito è un mimetico bolscevico altoborghese che riscuote il plauso di un Occidente felice di averlo a baluardo dell’espansione comunista in Europa. In Jugoslavia applica ai “devianti stalinisti” il trattamento che Stalin aveva riservato ai trozkisti. Piovono centinaia di migliaia di dollari dagli Stati Uniti, affetti dalla psicosi che il morbo di Cuba si diffonda nelle due Americhe, e Tito recita il ruolo dell’eterodosso, assurge a campione di tutti i Paesi del Terzo mondo che non si piegano alle due superpotenze.
All’interno del quadro della Guerra Fredda, va scelto un padrino: certi scelgono l’Urss, altri gli Usa. O i due padrini scelgono per loro. È l’instaurazione delle dittature, il saccheggio delle risorse e il tesoro pubblico a fare da cassa continua di ambiziosi che perdono i princìpi per strada, se mai li hanno avuti. Il copione è lo stesso: siano africani come Mobutu, predatore dello Zaire, mulatto come Francois Duvalier, tirannello di Haiti, beduino come Gheddafi, iracheno come Hussein, cinese come Mao del “grande balzo”, coreani come i Kim, cambogiano come Pol Pot, i dittatori sono di bassa estrazione e la rivincita è la loro leva di Archimede.
È persino pletorico constatare i meccanismi d’insediamento: imprimere il proprio marchio su tutto, terrorizzare, mettere la mordacchia all’informazione, eliminare l’opposizione, istituire la polizia politica, punire e premiare. Far sognare un radioso avvenire dopo la notte della Rivoluzione, Lenin, Stalin; ricostruire il Reich millenario, Hitler; rinverdire i fasti dell’Antica Roma, Mussolini... hanno tutti un’agenda economica di rilancio, lavori pubblici, edificazioni che deragliano in imprese stravaganti; ma a perderli è il culto che hanno di se stessi. Alcuni sono omicidi seriali, altri cinici calcolatori al servizio del proprio potere: Franco, Honecker, Pétain.
La prima ondata di dittatori sviluppa dopo la Prima Guerra mondiale in un’Europa caduta nel caos; finita la Seconda, l’altra investe soprattutto il Terzo Mondo, a seguito della decolonizzazione, mentre le grandi e medie potenze schiacciano l’occhiolino ora a l’uno ora all’altro, e li chiudono tutti e due davanti a stragi, razzie e repressioni.
Ma troppo sangue è fuori moda. Il capitolo sulla dittatura prossima ventura, avverte Guez, lo stiamo scrivendo assieme, oltre due miliardi di persone attaccate ai social. Una dittatura senza regno, senza confini, dove la polizia politica del terzo millennio è costituita dall’algoritmo che condivide con il regime i nostri dati. In Cina già è così. Lì WeChat, l’applicazione di Stato è ’all inclusive’: serve per pagare un pasto, prenotare un biglietto, riscuotere lo stipendio; indispensabile per i disbrighi burocratici, svela sogni, segreti, pensieri.
Un software di riconoscimento facciale è collegato a un computer che scannerizza un individuo in un secondo attraverso il panopticon di telecamere che scruta milletrecentosettanta milioni di cinesi.
Intanto noi privilegiati della vecchia Europa godiamoci gli obsoleti “democratici illiberali”, accentratori di poteri. Consentono di votare, ma prima l’uomo forte manipola la costituzione, squalifica l’avversario e se poi resta deluso trova un pretesto per far annullare le votazioni. Per il peggio c’è ancora, poco, tempo.
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